Randy Hansen @Orion Club, Roma (testo e foto di Stefano D’Offizi)

Almeno un centinaio! Questo è il numero approssimativo di tribute band più o meno riuscite che, di fronte ai miei occhi, si sono avventurate nella reinterpretazione della Experience più famosa del mondo, e nonostante nessuno potrà mai colmare quel vuoto, stavolta mi sono illuso per qualche istante di poter credere al miracolo. Ben sessantanove anni fa, nacque uno dei miti incontrastati del Popolo del Rock, una di quelle icone che chi non ama, ha spesso la volontà di apprezzare o quantomeno rispettare comunque, e nonostante avrebbe compiuto gli anni proprio oggi, non è lui il protagonista della serata, o almeno, non direttamente.

Randy Hansen è senza alcun dubbio il miglior cover man (se esiste il termine, altrimenti lo invento senza problemi) che abbia mai reinterpretato il bagaglio artistico del grande genio scomparso, piccola eccezione per forse l’unica espressione resa pubblica della sua genuina vena artistcia presente nella colonna sonora di Apocalypse Now. Il tributo parte con un ovvio Happy Bithday, quindi, le mani del funambolico chitarrista partono in quarta e devo ammettere che si tratta di un piacere per gli occhi, oltre che per gli orecchi. Chiudendo gli occhi, (e con una buona dose di immaginazione) sembra quasi di poter rivivere un momento della Woodstock Generation, cosa che viene purtroppo smentita in modo ingiusto quanto reale. In effetti, il pubblico delle grandi occasioni stasera non c’è, niente bagno di folla per un artista che forse avrebbe meritato un’accoglienza più calda, colpevole forse di non poter reggere il confronto con il posticipo della Serie A? Non oso pensare a nulla del genere, anche perchè come spesso accade in situazioni simili, il detto Meglio pochi ma buoni funziona anche stavolta. Randy è un gran signore, non c’è che dire, testimone il fatto che si crea una sorta di ambiente familire per pochi intimi, nonostante il capiente locale sia praticamente vuoto almeno per metà. Tutto molto piacevole, ed i pochi presenti accolgono quell’atmosfera con insperata energia e rinnovata verve, animando sparuta ma movimentata platea, pronta ad assorbire ogni Banding come una spugna desiderosa di apprendere. Per quanto potrò sempre essere dalla parte di chi dice “solo una persona poteva suonarla coi denti” sono costretto a ricredermi, una cosa è certa, Randy Hansen ha deciso tanto tempo fa, che avrebbe portato il repertorio del suo (e del nostro) idolo in giro per il mondo, tanto per ridare vita a delle note che fortunatamente non moriranno mai, e guardandomi attorno stasera, fra uno scatto e l’altro, mi rendo conto che i pochi romantici attorno al palco, devono sicuramente pensarla come me, e che hanno deciso di omaggiare con la loro presenza, questo ennesimo 27 novembre privo del suo compianto festeggiato. A parte questa nostalgica visione della serata, l’audio è buono nonostante la sala vuota, e la scena è davvero molto interessante, soprattutto quel gioiello di Fender Stratocaster riadattata a mancina, un classico del rock, così come tutti i pezzi eseguiti e reinterpretati con grande maestria e dedizione, segno che tutto lo spettacolo fa parte di una studiatissima rivisitazione.

Peccato per tutti gli amanti di certi classici, si sono persi quella che è senza possibilità di dubbio, la miglior tribute band di Jimi Hendrix mai esistita, e nonostante il pubblico non proprio numeroso, l’Orion ha dimostrato comunque di saper gestire artisti ed eventi di un certo livello.


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