Miriam Mellerin – Miriam Mellerin (Autoproduzione, 2012) di Stefano D’Offizi

Nonostante sia uscito solo alcuni giorni fa, il lavoro dei Miriam Mellerin mi ha investito come un treno in corsa da subito, ma ho preferito approfondire l'ascolto prima di lanciarmi in giudizi affrettati, sebbene la qualitĂ  si può avvertire immediatamente dalle primissime note di Parte di Me, traccia di apertura di questo lavoro d’esordio. Si tratta di una sequenza azzeccatissima di accordi e sonoritĂ  decisamente appropriate a quella che solitamente non si trova in cima ad un disco, scelta effettivamente azzardata, una lama a doppio taglio che rivela quasi immediatamente il sound della band, uscendo subito allo scoperto forte…

Score

CONCEPT
ARTWORK
POTENZIALITA'

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Nonostante sia uscito solo alcuni giorni fa, il lavoro dei Miriam Mellerin mi ha investito come un treno in corsa da subito, ma ho preferito approfondire l’ascolto prima di lanciarmi in giudizi affrettati, sebbene la qualitĂ  si può avvertire immediatamente dalle primissime note di Parte di Me, traccia di apertura di questo lavoro d’esordio. Si tratta di una sequenza azzeccatissima di accordi e sonoritĂ  decisamente appropriate a quella che solitamente non si trova in cima ad un disco, scelta effettivamente azzardata, una lama a doppio taglio che rivela quasi immediatamente il sound della band, uscendo subito allo scoperto forte della propria potenza e personalitĂ .
Come sempre, la decisione di utilizzare i testi in Italiano risulta dura, anche se dimostrano di avere un ottimo orecchio e di riuscire a musicare un linguaggio tanto articolato quanto impegnativo, rispettando il naturale timbro vocale di Diego Ruschena, voce e basso della band, perfettamente al centro di una ottima prospettiva di rock alternativo.  Un brano che probabilmente parla di amore, sebbene il tema non sia del tutto evidente, forse una  scelta voluta che contribuisce ad indurirne i contenuti, spingendo lontano chi ascolta dallo stereotipo musicale di un argomento assolutamente fuorviante ed inflazionato.
Che dire: primo brano dieci e lode, come spesso viene detto in simili casi, un inizio col botto!
Non per questo mi perdo d’animo, mi rimbocco le maniche (ed anche le orecchie) e passo al successivo brano, resettando da zero per evitare preconcetti che possano in qualche modo influenzare il giudizio di ogni canzone, alla costante ricerca di un punto debole che comunque non trovo in Made in Italy, seconda traccia dell’album. Inizia piĂš o meno con lo stesso piglio, un urlo che potrebbe riassumere la situazione politica e sociale italiana, uno “Scappa!” urlato a squarciagola, cosĂŹ come tutto il dissenso per questa “povera penosa penisola” tanto per citare un altro verso del testo. In questa traccia sale il veleno di promesse mai mantenute, di una veritĂ  talmente evidente che solo il bellissimo fraseggio sul finale, abilmente incastonato da Daniele Serani alla chitarra e lo stesso Ruschena al basso, riescono a distogliere il pensiero di chi ascolta, dirottandolo verso il tema principale, reingoiando una fin troppo acida bile per tornare a parlare di rock.
La terza traccia propone subito un sound pieno di ritmo, Insetti rappresenta forse il brano meno impegnato, uno sfogo puramente rock per una descrizione degli istinti e degli appetiti umani, un’esplosione di chitarre graffianti e riff incrociati. Poderosa la prova di Andrea Ghelli alla batteria (successivamente sostituito da Pietro Borsò), uno stile molto preciso e potente, non si ferma mai, riprendendo fiato solo sul finale, una traccia breve ma intensa, carica di vibrazioni decisamente rock.
Trust appare invece in controtendenza, come una canzone estranea, come se per sbaglio fosse stata inclusa nel disco sbagliato. Non parlo di generi musicali ovviamente, che al contrario dimostrano lo stesso stile più che riconoscibile. La nota che poco mi convince è l’utilizzo della lingua inglese, personalmente la trovo forse superflua e leggermente forzata. Mi chiedo se ci sia un motivo preciso per questa scelta, visto che fino a quel momento ho ascoltato un lavoro davvero ben fatto e ben musicato, oltretutto, quando l’inglese non è la lingua madre, si sente in alcune spigolose pronunce che contribuiscono a rendere alcune prospettive un po’ forzate, che sia questo il punto debole? In effetti non ne ho incontrati molti altri. Nonostante tutto, si tratta comunque di un pezzo d’impatto, dove il racconto di un disagio familiare prende il sopravvento sul semplice ascolto.
Trovo apprezzabile il suono claustrofobico di Ostrakon, che di forza si apre un corridoio per raggiungere il trofeo di canzone migliore dell’album, divenendo di fatto una delle candidate. Tempi dispari e dissonanze che si intrecciano attorno ad un riff principale,inspessendosi nota dopo nota. L’ottima voce di Ruschena ottiene delle inclinazioni interessanti verso una certa sofferenza, apprezzabile ad orecchi più attenti della media, apparentemente velata da un suono duro e molesto che tenta inspiegabilmente di attirare l’attenzione lontano da un testo decisamente insolito. Sicuramente merito di un mixaggio coi fiocchi, effetto senza dubbio voluto e cercato, una voragine nel bel mezzo di un pieno di mediatico ottimismo. Ottimo brano!
In B.H.O.O.Q. si torna all’inglese, stavolta più convincete, e ci si chiede oltretutto che significato abbiano le lettere punteggiate. Strumentalmente rappresenta il lavoro più complesso del disco, almeno fin qui, suoni che si rincorrono, attraversati da una certa atmosfera surreale che ha un leggero retrogusto sentimentale, misto ad un senso di rivalsa, in modo particolare negli ultimi versi urlati.
Il vero capolavoro è stato sapientemente nascosto come traccia conclusiva, solo alla fine di un efferato album che fin qui ha convinto ben oltre la sufficienza. Si tratta di stare in cima ad una piramide su di un piede solo, dove i quattro lati su cui si può cadere, rappresentano le difficoltà di questi sei minuti scarsi, un misto fra il pretenzioso, lo scontato, il banale e l’arrogante. Ebbene, contro ogni pronostico, i Miriam Mellerin riescono a stare perfettamente in piedi, fregandosene della forza di gravità o della paura di guardare in basso, ed è così che Stilnovo riesce a non gettare fango sulle creazioni di un certo Cecco Angiolieri, rispettandone la durezza e l’impeto, assolutamente necessari per rendere giustizia ad una rivisitazione tanto ingombrante quanto sostanziosa, rendendo in apprezzabile musica, temi tanto passati e tanto attuali allo stesso tempo, mantenendo momenti di rabbia ed angoscia. Poco fa ho detto sei minuti scarsi, ma non si tratta di un errore, in effetti dopo sei minuti la musica si interrompe e rimane silenzio per altri tre minuti… il resto scopritelo da voi…
L’intero album è stato prodotto da Edoardo Magoni presso il Redroom Studio di Nodica, con l’ausilio di strumentazioni vintage e tecniche moderne, un accostamento perfettamente riuscito, così come le collaborazioni più che apprezzabili di Marco Calcaprina (Tom Moto) e la nostra assodata conoscenza nonché voce dei The Casanovas, Diletta “Lady” Casanova, due nomi che impreziosiscono ulteriormente questo bellissimo lavoro che non posso davvero non consigliare.

Miriam Mellerin

Diego Ruschena – Voce,Basso
Daniele Serani – Chitarra
Pietro Borsò – Batteria
http://www.myspace.com/miriammellerin


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