God Is an Astronaut live @ Circolo degli Artisti (testo e foto di Bernardo Fraioli)

E’ la data di un tour organizzato per festeggiare i primi dieci anni di attività di tre irlandesi di Glen of the Downs.
E registrare un sold out è sicuramente un bel regalo.
It’s a present for you, God is an Astronaut.
Auguri. Cento di queste carriere e mille di questi album.
La corsa nel circuito del post rock, se non li ha visti vincitori, ha riservato loro un premio importante.
Oggi si incontrano sotto il palco generazioni diverse di lignaggi diversi, con cuori diversi e gusti diversi.
Vedi adolescenti, che sfoggiano una memoria mai morta per i Mayhem e vedi i candidati al mezzo secolo, blindati in giacca e cravatta e accompagnati dalla propria valigetta d’ufficio.
C’è chi ancora non ha l’età per recarsi alle urne.
C’è chi le urne le ha già viste troppe volte.
Coloro, secondo il retaggio pedagogico nazionale, ai quali ci si rivolge dandogli “del lei”.
Chi da del tu ai presenti, invece, sono i festeggiati della serata. Raggiungere il risultato del tutto esaurito, con una massa eterogenea simile, permette la confidenza.
E per una volta tanto, nessuno è tacciato di maleducazione.
I God is an Astronaut propongono al meglio la propria alchimia strumentale, attraversata dallo stile dei padri putativi Mogwai e irrorata dal flusso tenue degli M83.
Sanno piacere in sede live, grazie ad una forte convinzione che non cozza con l’arroganza.
E’ la forza di cinque album in studio, studiati per essere la colonna sonora di aspiranti cosmonauti, a dare l’impronta da sogno ad un concerto vibrante ed elegante.
Vengono spolpati tutti dei loro momenti più alti, dall’esordio del 2002 The end of beginning (riesumato già dalla terza traccia in scaletta) all’ultimo lavoro del 2010 The age of the fifth sun.
Catturano dunque l’attenzione con Echoes, piccola gemma del loro ultimo capitolo; accelerano i ritmi con Zodiac, espressione dell’ esperienza del 2008; omaggiano il pubblico con Suicide by a star, estrapolazione di All is Violent, All is Bright e ricordano le loro radici con Route 666, traccia contenuta nel primo studio album.
La dimensione dal vivo, come quella in studio, conferma il voler tenere in disparte assoli e momenti di protagonismo dei singoli membri, preferendo optare in alcune rielaborazioni ed allungamenti di brani, pur mantenendo sempre l’orizzontalismo tra i membri.
E’ una continua esplorazione in territori sconosciuti, oscurati da trame intimiste per poi scoppiare nuovamente in impatti  dirompenti.
Un concerto di accordi che sanno cancellare i limiti di spazio e tempo, dove le chitarre si confondono con le tastiere, gli echi conquistano il predominio e l’infinito pare aprirsi davanti ai propri occhi.
E se al bando vengono messi testi e parole, il soccorso corre dalle proiezioni che avvolgono i brani degli irlandesi: a confermare la formula di Full audio video show, da loro stessi sempre rivendicata, il concerto incorpora immagini di lanci spaziali, bombardamenti aerei, vecchi film fantascientifici e testimonianze dell’esploratore francese Francis Garnier, l’emblema incarnato di una ricerca spasmodica verso nuovi confini.
Sono immagini che rispondono ad un’esigenza di completezza nel momento live, planante sulle atmosfere ampiamente disegnate dalla musica dei God is an Astronaut.
Forse il paradosso di una performance che invita ad essere apprezzata ad occhi chiusi.
Eppure qualcuno sa anche abbandonarsi all’implicita chiamata, serrando le palpebre ed educando i movimenti alla musica, fino alla fine della performance dei fratelli Kinsella e di Lloyd Hanney, quando rompono le righe con un classico del loro repertorio dal titolo di Fire Flies and empty skies, ultime note della serata prima di un sicuro arrivederci.
Era da circa un anno che non si affacciavano dai palchi.
Si sentiva la mancanza dei loro volti dal vivo e hanno ricordato a tutti il perchè.
Ora è favorita l’attesa per un nuovo lavoro in studio, allacciata alla speranza di incontrarsi di nuovo sulle stesse rotte e le stesse orbite.
Quelle, talmente alte, che videro incontrarsi, in un lontano autunno del 1957, Dio, uno Sputnik e una piccola cagnolina dal nome Laika.
Qualcuno la ricorda?


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