Japandroids live @ Lanificio 159 (testo di Flavio Centofante, foto di Roberto Esposti)


In tempi in cui il duo musicale composto da batteria e chitarra va forte, vedi i defunti ma recenti White Stripes ed i Black Keys ma anche i nostrani Bud Spencer Blues Explosion, qualora si presenti l’occasione di approfondire un’altra formula musicale affine si teme sempre di vedere una copia banale degli originali. Non è stato così nel caso dei Japandroids: forse perché sono bravissimi e fantasiosi coi rispettivi strumenti, forse perché sono canadesi (Vancouver) e dunque più umili degli americani; in ogni caso il loro concerto al Lanificio159 è stato grandioso.
Con all’attivo due album, Post-Nothing (2009) e Celebration Rock (2012), fanno parte dell’ondata musicale d’oltre oceano più recente. Nel loro tour europeo sono accompagnati dal gruppo pesarese Be Forest (bellissimo nome, di “Cureiana” memoria?). Sono loro ad aprire le danze suonando musica liquida, sospesa, rumorosa, tribale: Costanza, Erica e Nicola, tutti e tre in piedi, basso, tamburi e chitarra, eseguono circa sette pezzi in stile shoegaze-dark wave, con qualcosa però di molto personale e inafferrabile, e si fanno apprezzare davvero molto. Sono anche simpatici e carismatici. Cercateli su internet.
Poi è il turno dei Japandroids. Brian King imbraccia la chitarra e sistema il microfono, mentre David Prowse organizza tamburi e piatti: appena saliti sul palco appaiono tranquilli  e metodici, ma da alcuni movimenti delle mani e degli occhi si capisce che sono già in fibrillazione, completamente carichi per il concerto. Ad aiutarli i bravi tecnici del Lanificio e Louis, il loro roadie-soundchecker-tuttofare sempre presente in tour. Con capelli e barba lunghi, tatuaggi coloratissimi e degli occhietti che rivelano origini indiane, polinesiane e chissà cos’altro, Louis è parte integrante del gruppo. La voglia di muoversi per il mondo per suonare musica rabbiosa e onesta, la curiosità, le grandi bevute, la voglia di conoscere gente in mille città e continuare a imparare, l’energia dell’attimo che fugge: è tutto qui, nelle facce dei tre amici, e del pubblico in attesa. E’ rock.

Brian si presenta ai microfoni con gentilezza e umiltà, dice da dove vengono, e ringrazia il pubblico per permettere loro di suonare e, in fondo, di esistere. Parte la chitarra, anzi ruggisce, e si va. La batteria inizia a battere forte per rincorrere l’altro strumento. Ogni inizio canzone rivela il loro amore per il rock classico. Vero, puro rock ‘n’ roll. Gli elementi col quale questo sound è mischiato sono un certo gusto per l’indie rock più energetico e l’hardcore pesante. Potenzialmente, nel corso della serata si ascoltano almeno due o tre riff che potrebbero diventare famosissimi. Il primo pezzo, Boys are leaving town, forse la seconda parte della storia raccontata dai Thin Lizzie, è un colpo sonoro, dove le voci dei due che cantano all’unisono sembrano voler creare un’anthem generazionale, un po’ come facevano i Pixies o gli Agnostic Frontnegli anni ottanta.


Le voci, a tratti veri e propri cori, sono più una sorta di echi degli strumenti che invece la fanno da padrone: Brian non usa pedali particolarmente strani, solo quelli basilari, d’altronde per fare rock genuino non serve altro tranne l’energia delle braccia e del cervello; David è un batterista bravissimo, velocissimo, ma che ha dalla sua la cosa più importante e divertente: la voglia di fare casino. Pare di vedere uno di quei vecchi gruppi anni ottanta che mischiavano l’hardcore alle linee melodiche orecchiabili, tipo gli Husker Du. Il concerto è una festa allegra e rabbiosa. I Japandroids sono travolgenti e infatti i ragazzi del pubblico si trovano immersi in un pogo senza fine, vecchio stile. L’atmosfera genuinamente felice che rimbomba per la sala stupisce meravigliosamente: tutti, ragazzi e ragazze, catturati dall’energia della musica, si buttano nella mischia. Era da tanto che non si vedeva un così buon rock ‘n’ roll lanciato su un palco musicale della capitale. Vengono suonate Rockers East VancouverYoung Hearts Spark Fire, The House That Heaven Built, The Nights of Wine and Rose. Tutte un bel pugno nello stomaco, tutte bellissime. 

Il gruppo chiude con un vecchio pezzo dei Gun Club, For the love of Ivy, l’unica cover della loro produzione, perfettamente in linea con le emozioni del concerto e con l’anima del gruppo. Brian non si dimentica di dire che se c’è qualcuno che vuole parlare del proprio gruppo, o di cose legate alla musica, può farlo alla fine del concerto. Proclama lui: “Noi in fondo non sappiamo cos’è il rock ‘n’ roll, però cerchiamo di scoprirlo”. Sì, forse non lo sanno, però lo suonano maledettamente bene.
 

Un ringraziamento speciale allo staff del Lanificio 159 per averci ospitato ed a Roberto Esposti per le fotografie


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