Brian si presenta ai microfoni con gentilezza e umiltà, dice da dove vengono, e ringrazia il pubblico per permettere loro di suonare e, in fondo, di esistere. Parte la chitarra, anzi ruggisce, e si va. La batteria inizia a battere forte per rincorrere l’altro strumento. Ogni inizio canzone rivela il loro amore per il rock classico. Vero, puro rock ‘n’ roll. Gli elementi col quale questo sound è mischiato sono un certo gusto per l’indie rock più energetico e l’hardcore pesante. Potenzialmente, nel corso della serata si ascoltano almeno due o tre riff che potrebbero diventare famosissimi. Il primo pezzo, Boys are leaving town, forse la seconda parte della storia raccontata dai Thin Lizzie, è un colpo sonoro, dove le voci dei due che cantano all’unisono sembrano voler creare un’anthem generazionale, un po’ come facevano i Pixies o gli Agnostic Frontnegli anni ottanta.
Le voci, a tratti veri e propri cori, sono più una sorta di echi degli strumenti che invece la fanno da padrone: Brian non usa pedali particolarmente strani, solo quelli basilari, d’altronde per fare rock genuino non serve altro tranne l’energia delle braccia e del cervello; David è un batterista bravissimo, velocissimo, ma che ha dalla sua la cosa più importante e divertente: la voglia di fare casino. Pare di vedere uno di quei vecchi gruppi anni ottanta che mischiavano l’hardcore alle linee melodiche orecchiabili, tipo gli Husker Du. Il concerto è una festa allegra e rabbiosa. I Japandroids sono travolgenti e infatti i ragazzi del pubblico si trovano immersi in un pogo senza fine, vecchio stile. L’atmosfera genuinamente felice che rimbomba per la sala stupisce meravigliosamente: tutti, ragazzi e ragazze, catturati dall’energia della musica, si buttano nella mischia. Era da tanto che non si vedeva un così buon rock ‘n’ roll lanciato su un palco musicale della capitale. Vengono suonate Rockers East Vancouver, Young Hearts Spark Fire, The House That Heaven Built, The Nights of Wine and Rose. Tutte un bel pugno nello stomaco, tutte bellissime.
Il gruppo chiude con un vecchio pezzo dei Gun Club, For the love of Ivy, l’unica cover della loro produzione, perfettamente in linea con le emozioni del concerto e con l’anima del gruppo. Brian non si dimentica di dire che se c’è qualcuno che vuole parlare del proprio gruppo, o di cose legate alla musica, può farlo alla fine del concerto. Proclama lui: “Noi in fondo non sappiamo cos’è il rock ‘n’ roll, però cerchiamo di scoprirlo”. Sì, forse non lo sanno, però lo suonano maledettamente bene.