Return from the grave – The rebirth from the last breath (Autoprod., 2013) di Daniele Dominici

Credo non faccia piacere a nessuno imbattersi in gruppi emergenti pieni di sé, o ancor peggio, pieni di picchi prosopopeici. Non che l'umiltà sia una condizione sine qua non in ambito discografico; anzi, nel campo della semplice promozione tale caratteristica è scambiata volutamente con il termine 'personalità'. Ma la chiarezza d'intenti non può che essere merce ben accetta in mondi per forza di cose ricchi di specchietto lucenti. È il caso dei Return From The Grave che per il loro primo lavoro full length, The Rebirth From The Last Breath, scelgono un manifesto limpido, senza compromessi, ricco di sincretismi…

Score

CONCEPT
ARTWORK
POTENZIALITA'

Conclusione : Grintoso

Voto Utenti : Puoi essere il primo !

528433_446762745392951_1800402841_nCredo non faccia piacere a nessuno imbattersi in gruppi emergenti pieni di sé, o ancor peggio, pieni di picchi prosopopeici. Non che l’umiltà sia una condizione sine qua non in ambito discografico; anzi, nel campo della semplice promozione tale caratteristica è scambiata volutamente con il termine ‘personalità’. Ma la chiarezza d’intenti non può che essere merce ben accetta in mondi per forza di cose ricchi di specchietto lucenti. È il caso dei Return From The Grave che per il loro primo lavoro full length, The Rebirth From The Last Breath, scelgono un manifesto limpido, senza compromessi, ricco di sincretismi all’apparenza di facile comprensione, ma scevri di un campanilismo già tacciato come inopportuno (soprattutto per un gruppo nato nel 2011). Dalla biografia apprendiamo che al centro di tale sincretismo musicale vi sono gruppi come i Black Sabbath, da cui i Return prendono in prestito soprattutto le tematiche, oscure, cupe, intersecate con le mai nascoste linee melodiche Doom e Stoner. Fate questo esperimento: inserite i Return From The Grave tra le playlist dell’iPod assieme ad altri gruppi più affermati della scena Metal. Vi assicuro che difficilmente noterete grossa differenza a livello di sound tra questo disco e record ben più ‘curati’ in fase di incisione. Ed anche se questo giochino dimostra poco e nulla (anzi per qualcuno potrebbe essere un sintomo di poca originalità), perlomeno la band in questione non potrà essere redarguita per scarsa attitudine verso il genere proposto. Il sound quindi, sebbene grezzo e migliorabile, è studiato per non essere mai traballante. Della serie: cose semplici, ma ben eseguite. L’umiltà, appunto, prima di tutto. Chissà se questi ragazzi conoscono l’album Meantime degli Helmet, gruppo icona degli anni ’90 che faceva di potenza esecutiva e suono tagliente i propri marchi di fabbrica, mentre il Metal con la M maiuscola eseguiva il personale canto del cigno. Più che i Black Sabbath i Return from The Grave paiono una riedizione calmierata della band newyorkese. Ed anche questo non pare essere del tutto un male. Il gruppo Veneto, tuttavia, si contraddistingue maggiormente per le linee chitarristiche di ‘Sparta’ (gli Helmet, almeno nell’album sovracitato, prediligono le sezioni ritmiche), musicista co-protagonista assieme a ‘Semenz’ (voce), della maggior parte dei brani dei Return. Alla carica malinconica di Reborn in Darkness (sugli scudi il bassista, ‘Chilo’), Servants of Doom e Inside Human’s Soul, si sovrappongono brani di greve riflessione, come Alone e Spiritual Ritual, quest’ultima depotenziata da sezioni vocali prese in prestito, addirittura, dalla scena lirica: non ci vuole un genio per asserire che forse l’esperimento si è rivelato sin troppo ardito. E se brani come Unholy Prayer e Dawn of a New Hope sono un ottimo riempitivo, gradevoli all’ascolto e ben inserite nel contesto tematico, sarà facile concludere che le uniche pecche che tarpano le ali a questo TRFTLB, sono in compartecipazione con una stragrande maggioranza di progetti d’esordio per band di questo genere. Innanzitutto un lavoro in studio approssimativo, che penalizza soprattutto il lavoro batteristico dell’interprete ‘Jack’. In secundis una parte vocale a tratti incerta e frenata dalla scelta della lingua inglese. Infine la croce secolare del sincretismo musicale, ovvero la costante sensazione da parte del pubblico di ascoltare il lavoro di qualcun altro (oltre agli Helmet, per forza di cose i Down di Phil Anselmo). Con un po’ di coraggio, chissà, questa bella realtà Veneziana potrà sfondare i cancelli dell’anonimato, riproponendo in salse diverse un precotto che, per ora, si lascia gustare senza infamia e con una buona dose di lode.

TRACKLIST:
1. Reborn In Darkness
2. Unholy Prayer  
3. The Rebirth From The Last Breath
4. Spiritual Ritual
5. Servants Of Doom
6. Reflection
7. Alone
8. Inside Human’s Soul
9. Dawn Of A New Hope 


Commenti

Stefano Capolongo

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