Steven Wilson @Orion club, Roma (testo di Flavio Centofante, foto di Stefano D’Offizi)

Si, è vero, quando pensiamo a Steven Wilson ci vengono in mente i Porcupine Tree, una delle creature più belle degli anni novanta e non solo. Viene in mente quello splendido live che fu Coma Divine, anno di grazia 1997, organizzato da Radio Rock al Club Frontiera, forse uno dei più bei live mai registrati in quanto a precisione e pulizia acustica. Ecco: suono. E’ questa la parola chiave. Proprio il suono, e la ricerca spasmodica delle sue molteplici sfaccettature, è il filo conduttore che accomuna tutti i progetti di Wilson, davvero numerosi: Blackfield, No-Man, I.E.M., Bass Communion, collaborazioni varie. Anche il suo secondo e più recente disco solista, Grace for Drowning, non è da meno in quanto a freschezza e curiosità musicale. Anzi è parso essere una delle cose migliori che il nostro eroe ha inciso da molti anni a questa parte. Cocciutamente progressive come nei suoi sogni migliori, ma unito ad una sapiente ricerca contemporanea che va dall’elettronica alla fusion, è un disco che si ascolta con gran piacere, senza che il ragazzo ci faccia mancare perfino inframezzi di pop sofisticato. Prima ho parlato di sogni: esattamente. Una quindicina d’anni fa, quando coi Porcupine Tree Wilson realizzò uno dei suoi album più belli, Stupid Dream, pareva quasi volerci dire: “io continuo, provo a tenere in vita lo stupido sogno irrealizzabile di proseguire il progressive sound, anche se il secolo scorso è praticamente finito; ma purtroppo è solo un inutile sogno impossibile: ormai questo desiderio è anacronistico. E allora dedichiamogli almeno un album, all’amato progressive, il mio bellissimo canto del cigno, e poi passiamo ad altro” (vedi In Absentia del 2002, con una ricerca spiccatamente dura, quasi metal). Bene, ora sappiamo che era solo una trappola, che il nostro chitarrista occhialuto e capellone voleva solo confonderci. Non era l’ultimo eco di progressive che voleva attraversare. Con questo nuovo album, e il conseguente tour per presentarlo, Steven Wilson ha infatti proseguito quel discorso, e anzi ha aggiornato il progressive rock degli anni settanta al nuovo millennio. Circondato peraltro da musicisti assolutamente immensi: il fido e bravissimo Theo Travis ai fiati, l’uragano colorato Marco Minnemann alla batteria, l’eccentrico bassista e seconda voce Nick Beggs, l’elegante e bravissimo tastierista Adam Holzman ed il preciso chitarrista Aziz Ibrahim.
La serata inizia con i componenti del gruppo che fanno il loro ingresso sul palco uno ad uno, e si mettono a suonare il proprio strumento, aggiungendo suoni e ritmi, finchè non entra (accompagnato da un’ovvia ovazione) Steven Wilson. Il palco è circondato da un grande telone trasparente tipo zanzariera, che smorza in parte le figure dei musicisti, e che servirà a proiettare le immagini e i video. Il concerto parte definitivamente, gli strumenti rombano, il pubblico numeroso alza le mani. Sono passati tanti anni da quando l’ho visto l’ultima volta, il nostro Steven: non è cambiato, pare avere sempre la stessa età, e quando sbircio i suoi occhietti, mi accorgo che nascondono ancora quella grande modestia, rilassatezza e gentilezza che emanavano tanti concerti fa. Più quel pericoloso – si fa per dire – luccichio. Vengono suonati molti brani del nuovo disco, uno attaccato all’altro, così che più che una track-list ci viene presentato un lungo “stream of consciousness” musicale. Tutti i suoni della mente di Steven ci si aprono davanti, come fuochi fatui assolutamente meravigliosi, accompagnati e cesellati dai suoi fidi assistenti alchemici agli altri strumenti. An evening with Steven Wilson è il titolo della show, anzi, del viaggio. Perché di questo si tratta. I musicisti sono velati dal telone che hanno davanti, e li vediamo muoversi come immersi in un sogno di vapori e luci. Sul telone vengono proiettati video, che si accavallano alle figure in carne ed ossa più dietro sul palco: le immagini che vediamo alternarsi sono frammenti di visioni inafferrabili, forse metafore wilsoniane dell’inconscio e dei sogni. Uomini con strane maschere, bambine che corrono, boschi impenetrabili, un uomo che scava buche nel terreno, il sole che brilla acido nel cielo, le stelle sfocate nella notte. Forse tali immagini generano in noi una leggera punta di angoscia, di spaesamento, e chissà cosa vogliono provocare nei recessi del nostro cervello, ma tale stato d’animo è controbilanciato dal miele sonoro prodotto sul palco.
C’è qualcosa di ancestrale nei suoni ambientali che provengono dai sintetizzatori, così come nell’ostinata elettricità sorda del basso. Ci accorgiamo che, proprio per proseguire in modo corretto questa seduta psicanalitica musicale (gentile omaggio del gruppo alla nostra mente), molti degli strumenti sul palco sono antichizzati: le due grandi tastiere sulla destra sembrano di mogano scuro, come un vecchio pianoforte perso in qualche salone d’inizio secolo; il pianetto di Wilson poi, molto basso ed al quale si siede per terra incrociando le gambe come fosse un esercizio zen, pare uno scrittoio d’altri tempi, prezioso, intarsiato, e sembra rimandare a quello della scena finale di 2001: Odissea Nello Spazio: altri luoghi, altre dimensioni. I sogni, l’infanzia, l’energia corporale della musica, gli incubi, il galleggiare nello spazio, il sonno, l’enormità che ci circonda. Lo show, insomma, vuole essere qualcosa di diverso dal solito: senza sbatterlo in faccia, è ovvio che l’intento di Wilson è quello di creare un evento colto e ricercato, dove le emozioni provocate nello spettatore siano collettive e intime al tempo stesso. La musica, nel frattempo cresce di volume. Quando durante un brano partono all’improvviso delle schitarrate pesanti – cosa che il nostro non ha comunque più abbandonato dai tempi di In Absentia – il telone cala giù all’improvviso: il sogno precedente si interrompe e, nel fragoroso muoversi  sorpreso del pubblico, la musica vola amplificata e alta nel locale, mentre Steven sorride verso i suoi fan. E’ contento di vedere che ancora una volta è circondato da amici, da appassionati di musica, che comprendono il suo messaggio, anzi con lui lo condividono, e che soprattutto amano la buona musica: quella non scontata, cioè, bensì quella curiosa, che si muove sempre in valli inesplorate, che ficca il suo dannato naso ovunque, e che mischia generi e umori e aree temporali così distanti.
Che io abbia indirettamente appena scritto la definizione di progressive-rock? La sala dell’Orion è calda e vibrante: il concerto pare un’onda variegata strisciata su un foglio di carta da un braccio meccanico per captare terremoti: flussi bassi, quando appunto il suono rallenta e pare cercare la soluzione della notte, e picchi iperbolici, quando la sezione ritmica sfodera la sua maschera migliore e le chitarre ronzano rumorose, cattive, potenti. La batteria è magistrale: è incredibile la semplicità col quale vengono tenuti tre ritmi assieme, con un braccio scollegato dall’altro, e la braccia insieme scollegate dalle gambe. La domanda adesso è: quante gambe ha il batterista? Il bassista invece, un po’ l’eroe morale della serata, non muove nulla del suo corpo eccetto le dita sulle corde e le splendide treccine bionde che ha su entrambi i lati della testa, come a dire: “Hey, sono la bambina satanica di cui avete sentito tanto parlare, ma in realtà sono innocua!” Meravigliosi gli intarsi sonori delle tastiere, ora semplici, ora estremamente complessi ma ben nascosti alle orecchie dei profani: in questo in fondo sta l’essere un grande musicista. Essere bravo ma non darlo a vedere. L’essere appunto, come diceva Borges, una finzione vivente.
Steven Wilson segue col pensiero e gli occhi chiusi la musica: nei pochi momenti in cui non canta o non suona, muove le mani nell’aria a mò di direttore d’orchestra, ma lo fa solo per se stesso, per non perdere il segno sul pentagramma invisibile che segue magicamente dietro la sua retina. Come sempre ogni brano l’ha scritto lui, ogni singola nota: sa tutto a memoria, e segue i suoni-farfalla come fosse un esploratore col retino: pare di vederlo ancora nella sua cameretta inglese quando da piccolo ascoltava i Pink Floyd o i King Crimson, e invece adesso è lì, su quel palco davanti a noi, involontario maestro di cerimonia della notte, camminatore impavido delle travi di legno. Ogni canzone viene eseguita con professionalità, passione, energia ed una punta di gentilezza. I ragazzi sul palco si divertono, sorridono, mentre Wilson va da ognuno di loro e li incita con le braccia. Solo il bassista con le treccine – che è anche la seconda voce, posto sulla sinistra rispetto al pubblico – viene lasciato in pace, forse temuto dallo stesso Wilson. La seconda chitarra produce ottimi assoli o effetti morbidi e delicati, dando la possibilità a Wilson di cantare le sue parole, di seguire il flusso dei suoi pensieri. Molti passaggi delle canzoni sono orecchiabili, quelli insomma che potremmo definire ritornelli. Ma non appena si entra in un’atmosfera pop, non ci si accomoda mai, e anzi si riparte verso un sound più robusto, forte, di rock grezzo. Piccole diapositive della serata che vanno qui ricordate: innanzi tutto l’acustica dentro al locale è assolutamente perfetta: ogni strumento si sente benissimo perché è calibrato e regolato con cura, e il wall of sound generale è limpido e granitico: tanto di cappello al locale, ma anche a Wilson, che suppongo c’abbia messo del suo. D’altronde se c’è uno che ne sa qualcosa di mixaggio e di tecniche sonore, quello è proprio Wilson: in effetti, chi è che ha remixato con perfezione certosina i primi dischi dei King Crimson provocando grande soddisfazione nell’amico Robert Fripp? No, non è quello con le treccine, è appunto Steven Wilson (quello senza i calzini!!! n.d.r.). Altro bel momento, quando uno del pubblico urla il suo nome verso il palco rovinando – a parere di Wilson- ciò che stava spiegando tra un brano e l’altro. A quel punto gli viene chiesto dal maestro di cerimonia in persona perché ha dovuto urlare il suo nome così, “cioè, qual’ è lo scopo di tale azione?” Il ragazzo non risponde, e allora Wilson lo riprende dicendogli: “e come, ora sei timido?” Poi, dopo questo lungo siparietto in cui la simpatia e l’eleganza di Steven la fanno da padrone, il ragazzo dice che è un suo grande fan da sempre, e che si chiama Paolo.
Steven saluta Paolo facendo fare un applauso al pubblico. Tanti altri inframezzi di chiacchiere percorrono la serata: Wilson ci tiene a spiegare ciò che l’ha spinto a scrivere quel pezzo, oppure quali sono le sue emozioni in quel momento, o cosa avverrà in futuro, o come si articolerà il brano che ci apprestiamo ad ascoltare. Sembra, nonostante siamo in tantissimi, una discussione fra pochi intimi. Fra vecchi amici. D’altronde è questa la magia della musica del nostro affezionatissimo: moltissimi fan, canzoni bellissime, eppure ancora oggi questo tesoro non è conosciuto in tutto il mondo, anzi pare un circolo per pochi iniziati, che hanno in comune le stesse passioni e i medesimi sogni. Questo sembra piacere molto ai fan, così come, credo un pò, anche a Steven. Il concerto prosegue meravigliosamente, con una grande foga passionale. Com’è grande l’apporto ai fiati di Theo Travis! Uno splendido artista che lavora con Wilson da anni: flauto traverso, clarinetto elettrico, sassofono, più altre escamotages d’aria che creano la cornice perfetta per il quadro sonoro della serata. Wilson presenta poi alcuni nuovi brani: mai incisi, dice, e che vanno verso un particolare mood of sound. Li presenta proprio qui a Roma per fare un regalo (Ciampino, in realtà, ma lui ragiona in termini londinesi, dove un grande distretto o paese lontanissimo dal centro è comunque parte della città, e quindi chiamerà per tutta la sera Ciampino come Roma). Steven non si scorderà mai del bene che gli ha voluto questa città: quando, spiega lui, in Inghilterra c’erano dieci persone a vederlo, a Roma già era famoso. Grazie, bisogna dirlo, anche a Radio Rock, storica emittente romana che ebbe l’intuizione di promuovere quell’atrettanto storico evento, lui citò di rimando sul book di Coma Divineinsieme a Dj PrinceFaster, un disco che è diventato un must per i fan di Wilson. Il primo dei brani inediti parte con un ipnotico giro di basso, seguito dalla batteria: si alterneranno vari movimenti musicali, a creare una piccola suite progressive: davvero di grande effetto. Anzi, ci è quasi parso che il nostro si stia muovendo davvero verso territori inesplorati per questo genere. Credo che alla prossima uscita solista di Wilson ne vedremo delle belle. Segue a questo punto un brano molto lento, di atmosfera, ed infine l’ultima, inedita, lunghissima traccia. Wilson chiede un po’ di pazienza per l’inizio della canzone – facendolo con la collaudata educazione inglese che ci piace tanto – perché è eccessivamente lenta, e di volume molto basso. La definisce di natura un po’ “epic”.
Dopo alcuni minuti di ascolto immobile, con le orecchie che seguono sensibili la chicca che ci sta presentando, partono delle chitarre, il suono cresce e le braccia del pubblico si alzano. Si entra nel vivo della traccia, con tanti cambiamenti di tempo, passaggi spigolosi e note inaspettate. Bellissima nel frattempo l’interazione musica-video (che sono proseguiti per tutto il concerto proiettati ormai alle spalle del palco). La canzone, lunghissima, è suddivisa in tantissime parti, vera prog-song di fine serata, omaggio enorme al genere tanto caro a Wilson e a noi del pubblico. Uno splendido brano, una piacevole stoccata a capofitto dietro le nostre nuche. Dopo due ore, il concerto è quasi finito. Il gruppo se ne va, poi solita commedia del bis, e infatti c’è l’encore. Wilson si sistema su una sedia posta vicino al microfono e canta un pezzo lento, accompagnato dal gruppo che aumenta lentamente la piramide sonora del brano. Poi, in un attimo di dormiveglia strumentale, Wilson sparisce, per tornare di nuovo quando la musica è più potente indossando una maschera antigas, simbolo che ricorre nella sua “cosmognia umana”, tanto nelle sue canzoni, quanto sulle copertine di alcuni EP e appunto nelle immagini proiettate dietro al palco. Fa un assolo di chitarra con addosso la maschera. E’ genialmente teatrale, stasera. Come quando Zappa suonava la chitarra tenendo la sigaretta accesa incastrata nelle corde vicino al manico, e si vedeva il filo di fumo perdersi verso i riflettori. Il suono della chitarra di Wilson, come lo è stato per tutto il concerto, è cristallino e preciso anche in quest’ultimo assolo. Un grande chitarrista. Perché nessuno, assolutamente nessuno dei suoi assoli, tanto dal vivo quanto su disco, è mai scontato. Poi l’attore-musicista si toglie la maschera, lancia saluti verso ogni angolo della sala, e si capisce che lo fa di cuore. Lascia il palco sorridendo; poi a turno, come uno specchio inverso dell’inizio dello show, anche gli altri musicisti abbandonano uno per volta la scena, interrompendo il passaggio musicale che stanno suonando. Se ne vanno la tastiera, poi i fiati, poi la chitarra. Restano solo treccine e batteria. Un passaggio ritmico, ipnotico, basso e dolce si ostina a persistere nell’aria dell’Orion.

Continuano così ancora per un minuto: è la chiusura dell’incantesimo. Poi piatti che rifrangono. Applausi. Il batterista ci saluta inaspettatamente dicendo al microfono l’unica cosa che sa in italiano: “E adesso vado a tirarmi una bella sega!” Il pubblico, composto da stilnovisti e professori universitari, si mette a ridere. La serata con Steven Wilson è (purtroppo) finita. Cavolo, davvero un grandissimo concerto. Fuori la notte è limpida, e si sente l’eco di una festa di paese. A questo punto il pubblico smette di sognare e si sveglia, oppure si addormenta, dipende dai punti di vista. Dipende da cosa voi intendiate per sogno.

Un ringraziamento speciale allo staff di Orion live club e Daniele Mignardi Promopress Agency per averci ospitato durante questo evento


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