Suntiago @Locanda Atlantide, Roma (testo di Flavio Centofante, foto di Stefano D’Offizi)

Come molti progetti che si creano e si perseguono quando si è giovani e pieni di vita, Relics nacque da un impulso del cuore tanto tempo fa, e venne perfezionato dalle chiacchierate di una manciata di ragazzi che bevevano birra attorno a un tavolo. La voglia principale fu quella di dare visibilità, a modo nostro, alle gemme nascoste dell’underground musicale romano, oltre che descrivere i concerti di gruppi ben più famosi. Ma è la prima delle due che ci interessa davvero. In molte delle nostre peregrinazioni nei locali più o meno sperduti della capitale, è capitato talvolta di assistere a live meravigliosi di gruppi sconosciuti con un pubblico in sala non molto vasto, o quasi assente; eppure in quelle serate una miccia è stata accesa. Il fatto cioè di aver scoperto delle band delle quali viene subito da pensare: “L’abbiamo trovata, questa può veramente sfondare, un giorno”. O almeno lo speri con tutto te stesso, mentre resti assorto a guardare come quel gruppo si muova sul palco calcando con maestria le tavole sotto i piedi, suonando quella musica in modo così naturale ed energico, come se lo facesse da cent’anni, e invece di anni ne hanno poco più di venti. Questa è stata l’impressione che ho avuto quando ho visto i Suntiago dal vivo. Ma partiamo con ordine, da prima dell’inizio. Il tutto si svolge alla Locanda Atlantide, tutt’altro che sconosciuto, anzi luogo di ritrovo di concerti e band molto interessanti da anni, oltre che bellissima location nelle serate più calde.
Arriviamo prima delle otto, e già ci sono due membri della band che scaricano gli strumenti dall’auto: Giovanni (voce e chitarra) e Nahuel(batteria, ma quella già l’aveva scaricata, buon per lui). Avevamo concordato di fare un’intervista al gruppo prima del live (che avremo il piacere di leggere più avanti n.d.r.). Ci presentiamo ed entriamo dentro: il locale è ovviamente vuoto, tranne che per i gestori. Scambiamo due chiacchiere coi ragazzi e ci prendiamo una birra. Dunque ci sediamo sul divanetto ad angolo vicino al bancone, mentre la ragazza che spilla le birre legge ogni tanto un libro: che libro sarà? In quest’atmosfera rilassata e silenziosa, quando la serata ancora non esiste, accendo il mio registratore vocale e inizio con le mie domande mentre Stefano comincia a scattare foto. Dopo una lunga serie di canzoni, i Suntiago hanno appena completato il loro EP, 12:34, composto da tre bellissime canzoni che spaziano dal rock e il pop ai ritmi colorati del mondo.  Anche questo lavoro verrà presentato a breve su Relics. Nel frattempo Stefano (il bassista) sta arrivando, invece Emanuele (chitarra e voce) questa sera non ci sarà. I componenti dei Suntiago, tutti molto giovani, suonano fin dalla prima adolescenza, e hanno portato avanti vari progetti prima di formare questo gruppo alla fine del 2009. Giovanni Ciaffoni(chitarra, voce), Stefano Danese (basso) e Nahuel Rizzoni (batteria e cori) facevano parte dei Sundowner, gruppo di ispirazione english-rock molto coinvolgente attivo già da diversi anni a Roma e provincia, nonché protagonista di molte manifestazioni musicali e contest.
Nell’altra sala gli Ecklettica (chitarra, due voci, basso, batteria e tastiera) hanno aperto le danze: presentano un pop-rock melodico cantato in italiano, con un paio di pezzi interessanti, più due cover, una dei Liquido e una di Rino Gaetano (per informazioni, li trovate su facebook).
Verso le undici è il turno dei Suntiago. Come se lo facessero da moltissimi anni (e in effetti è proprio così), Giovanni, Stefano e Nahuel imbracciano gli strumenti e le bacchette e molto rilassati salgono sul palco. Nahuel indossa i suoi occhiali da sole che forse gli daranno una magica marcia in più: così sarà. All’improvviso il concerto parte e si sprigiona subito una particolare energia nell’aria: c’è qualcosa che, fin dalle prime note, attrae l’attenzione. L’impasto degli strumenti crea in pochi secondi un disegno sonoro preciso e deciso. Si parte con un pezzo chiamato Nausea, che mette subito in luce due cose: la sezione ritmica crea una base robusta e frizzante; Giovanni ha una bellissima voce, che accompagna molto bene con la sua Gretsch. Alla fine del primo pezzo alcune persone in sala mostrano maggiore curiosità e attenzione: hanno capito che c’è qualcosa di interessante da vedere. Il gruppo prosegue con Suntiago, brano omonimo tratto dal nuovo EP. Alla seconda canzone che ascolti non ti puoi più sbagliare: i ragazzi sono proprio bravi e stanno presentando qualcosa di personale, originale. Per carità, non stanno mica sfoggiando musica cervellotica o d’avanguardia, e meno male. E’ piuttosto il loro approccio alla musica, e al live, che attrae l’ascoltatore. Il modo cioè in cui il pop e il rock, energici e solari, si mischiano ad un gusto particolare per le ritmiche di basso e batteria, e al fatto che la voce (mi raccomando, cantano in italiano, e questo fa la differenza) si muova su questo tappeto sonoro senza mai cadere nella trappola tricolore del “già sentito”. Pare che il rock internazionale e una certa sfumatura di world music venga filtrata dal gruppo attraverso il gusto melodico italiano, anche se la voce, per certi versi, italiana proprio non è. Giovanni mi ricorda, per connessioni inconsce, Jeff Buckley (da lui stesso molto amato), come approccio emotivo, più una punta di Samuel dei Subsonica. E il modo in cui la voce non sovrasta mai, anzi sia fortemente collegata all’anima della sezione ritmica, determina l’impasto sonoro che tanto ci colpisce. In effetti se ne può parlare quanto vuoi, ma Keith Richards l’aveva detto più volte: “uno può tentare di limare una strofa lì, può aggiungere quell’accordo là, e farsi venire quell’idea che forse ti para il culo, ma alla fine ciò che conta e che fa la differenza è solo una cosa, semplice ma fondamentale: il sound. Quando hai quello, hai tutto. E non c’è più bisogno di strapazzarsi tanto. Quando insomma trovi l’accordo perduto” – diceva sempre Richards – “è fatta”. Anche stasera mi pare che qui, alla Locanda Atlantide, i Suntiagol’abbiano trovato, il sound. Merito certamente di come i ragazzi del gruppo si conoscano da una vita, e delle loro ottime doti musicali. Per non rischiare nulla, Giovanni nel microfono ci urla, così sentono anche quelli in fondo. Colpisce il modo in cui la voce in italiano, che è stata e sempre sarà – non si scappa – un tantino melodica, venga rigirata come un calzino dalla lavatrice del gruppo per essere trasformata in qualcosa di nuovo, di internazionale, di fresco e originale. Se appunto una percentuale di questa appare istintivamente pop, e va benissimo, il resto è figlio degli ascolti stranieri e della curiosità, della voglia di muoversi sempre senza restare nella gabbia. E’ proprio lì che viene fatto il salto di qualità, è proprio lì che la voce diventa “personale”.
Gli stacchi e i cambi di tempo presenti in ogni canzone riempiono gli spazi non esplorati dalla voce. Nahuel alle pelli pare pieno di vita e di entusiasmo, non si fa scrupolo di gettarsi in lunghe cavalcate ritmiche, colpendo tutti i tamburi e piatti a disposizione, perché non si butta via nulla. Stefano invece detta i tempi invisibili: il basso è carico, sornione e rapido: in un gruppo che fa questo tipo di musica è uno strumento fondamentale. Ogni fraseggio rimanda ad un certo tipo di suggestione musicale, ad una certa fotografia sonora. Molti dei pezzi proposti durante il live, come In giù e Icaro, sono retti dagli impasti vocali come nella migliore tradizione pop anglosassone degli anni sessanta; altri brani sono chiaramente influenzati dalle percussioni quasi tribali e dai ritmi del mondo africano e sudamericano, fra tutti la bellissima Africa, complice la passione di Nahuel per i ritmi cubani e le ritmiche ancestrali. Gli arrangiamenti, anche se manca una chitarra, non sono mai banali. In altri casi invece la scelta è proprio la semplicità: un paio di accordi potenti bastano e avanzano. Dipende se il gruppo si sta muovendo fra sonorità più genuinamente rock – e allora c’è spazio solo per schitarrate potenti –  o se vuole sorprendere e sorprendersi  – e di conseguenza la sezione ritmica fa il doppio lavoro, ma con molto piacere. Mentre vengono alternati i vari brani, mi tornano alla mente una serie di nomi: Vampire Weekend, Pixies, Subsonica privi di elettronica, Big Star, Jeff Buckley, Nirvana, Beatles, i cantautori italiani più irriverenti, la new wave, l’hard rock dei settanta, il pop inglese dei novanta. E’ un misto di tutto, ma ben calibrato. I ragazzi hanno trovato un prezioso equilibrio. Questo, vuol dire aver trovato il sound. Giovanni cambia nel frattempo la chitarra, Nahuel e Stefano invece stanno bene così. Il gruppo prosegue con Maschere, singolo del nuovo EP, di cui si può apprezzare un videoclip in rete già da alcuni mesi.
I loro testi sono molto curati, mai banali e probabilmente vanno di pari passo con la musica, senza che l’uno si accasci sull’altra per debolezza. In Maschere viene detto chiaramente che non bisogna per forza vendersi, perdere la speranza, arrendersi al mondo di plastica moderno, diventare banali, continuare a recitare come se andasse bene così e basta. Bisogna piuttosto credere nelle possibilità della vita, rimanere se stessi e muoversi non nella meschinità, piuttosto nell’estro (e nel ritmo). Il concerto termina con L’ultima volta e Funk Off (bel titolo no?!). A concerto finito resta una sensazione nell’aria: quello che abbiamo visto è stato molto interessante, possibile che il gruppo non sia ancora così conosciuto? Insomma, la differenza con molti altri gruppi visti nel corso del tempo è evidente.  Di sicuro i ragazzi meritano di farcela e ce la stanno mettendo tutta.
Se vi capiterà l’occasione di conoscerli, avrete anche voi l’impressione di scoprire qualcosa di nuovo e prezioso.
Songlist:
Nausea
Suntiago
In giù
Seguimi
Linea sottile
Icaro
Ogni rinuncia
On the Barry Road
Maschere
Africa
L’ultima volta
Funk off


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Relics Controsuoni

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