Caliban + Carnifex + Winds of Plagues @BlackoutRock Club, Roma (testo e foto di Stefano D’Offizi)

Il Blackout Rock Club rappresenta uno dei punti fermi del panorama Metallico della capitale, così come la Extreme Agency, capaci di offrire sempre nomi degni di nota ed artisti di un certo spessore, difficilmente raggiungibili in altri siti che dispongono ovviamente di molto meno spazio ed acustica sicuramente di livello inferiore.
Il Bonecrusher Fest si rivela all’altezza delle grandi occasioni, così come il numerosissimo pubblico accorso per assistere all’enorme lista di band che si susseguiranno tra i due palchi all’interno del Blackout, sfiorando diversi generi fra le ultimissime sfaccettature in voga nella vastissima scelta offerta dal sound più duro di una generazione nata dai vari Sepultura, Pantera, Slayer e chi più ne ha, più ne poghi, ed in programma tantissimi nomi:
Betraying the Martyrs, WBTBWB, Attila, Within the Ruins, Eyes set to Kill, Molotov Solutions, Beneath the Massacre, Winds of Plague, Carnifex, Caliban
…un vero e proprio festival Metal Core che parte dal tardo pomeriggio per concludersi a notte fonda.
Le porte si aprono per le 18-30, anche se per ovvi motivi, il pubblico inizia a raggiungere la location un’oretta più tardi, iniziando ad accalcarsi sotto il palco per accaparrarsi i posti migliori.
L’età media è abbastanza giovane, un segnale importante che svela le nuove inclinazioni in ambito Metal, ed appartenendo alla “vecchia guardia” devo ammettere che si fa un po’ di fatica a stare al passo con questa evoluzione che di fatto, segna una svolta tra due generazioni.
Gli Eyes set to Kill riescono già ad animare una buona percentuale di pubblico, che sta già riempiendo la sala principale, preparando la platea per la prossima band. Passando per Beneath the Massacre, una quarantina di minuti di delirante Metal Core dai ritmi forsennati, si giunge finalmente ad una delle Headliner della serata, e si può notare immediatamente il salto di qualità fra strumentazione sul palco e quantità di pubblico che converge nella sala principale (quella secondaria ha ormai esaurito le band in cartellone), come a dire che ora si fa sul serio. Nonostante la presenza dell’avvenente Alana Potocnik alle tastiere, il livello di testosterone dimostrato dalla band supera i livelli standard consentiti dalla convenzione di Ginevra, innalzato ulteriormente dalla massiccia presenza di tatuaggi su tutta la linea, un’immagine davvero gretta che contribuisce ad indurire la prestazione di questi Winds of Plague capitanati dall’immenso Jonathan “Johnny Plague” Cooke alla voce. Pesanti, potenti, instancabili ed assolutamente divertenti, per quanto mi risulti difficile fotografare ogni sterzata in mezzo a quel marasma, riesco comunque a concentrarmi e ritagliarmi un posto accettabile, ma è solo l’inizio di quello che diventerà un vero carnaio.
Con i Carnifex, si raggiunge l’apice della serata, probabilmente il livello tecnico agganciato da questa band potrebbe risultare come il più elevato di tutto il festival, e vale davvero la pena di farsi questo penultimo bagno di folla per assistere alle loro gesta. Dopo un breve line check, pronti e via, si parte subito in quarta con lavori estratti dal loro ultimo album, Until i feel nothing. Ancora una volta, il pubblico dimostra di apprezzare oltremodo il sound proposto e molti, cantano a squarciagola assieme alla band, tanto da guadagnarsi l’invito ufficiale di Scott Lewis a raggiungerli sul palco per qualche secondo, giusto per animare ulteriormente quell’esibizione. Apprezzabile il look minimalista, maggiormente concentrato sull’impatto verso il proprio pubblico che non sull’approvazione per l’immagine, tanto per fissare nella memoria dei propri fan, qualcosa di udibile…
…così non è invece per i Caliban:
dopo un lunghissimo line check, protrattosi anche troppo per l’allestimento di due muri di casse abilmente aereografate in un tema stencil bianco e nero, (così come l’abbigliamento, lo sfondo ed il colore della maggior parte della strumentazione, di un vero e proprio treno di chitarre e bassi, alle pelli della batteria) si incappa in un problema tecnico che sembra provenire dal basso, e purtroppo si perde altro tempo. A parte questa piccola difficoltà tecnica, l

a band tedesca non sembra soffrire troppo dell’impazienza dei propri fan e si rimette subito in riga, proponendo un suono molto meno duro della band precedente. A mio parere si è perso qualcosa anche a livello tecnico, una performance più incentrata sull’immagine che non sul suono, lasciato anche in disparte in fase di check (la batteria ed il basso risultano davvero terribili), contribuendo così ad abbassare lievemente l’intensità del festival.

La voce di Andy Dorner è invece in controtendenza, così come l’impatto scenico che riesce ad avere sul pubblico che comunque non sembra minimamente avvertire alcun disagio.

Canzone dopo canzone, pogo dopo pogo, il festival giunge al termine, lasciando infine una folla sudata ed impazzita che dimostra comunque di non averne ancora abbastanza, continuando ad azzuffarsi anche quando i più cominciano a lasciare la sala.
L’energia delle nuove generazioni…

 


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