Neverhush + Giulia Kom live @ Jailbreak live club (testo e foto di Flavio Centofante)

Ci sono sempre due buone ragioni per andare al Jailbreak: Dante Colavecchi col suo bel cappello in testa che all’ingresso ti sorride cordialmente ogni volta, e le ottime proposte musicali sul palco. Che siano nomi famosissimi (vedi i recenti Fairport Convention e gli Iron Butterfly), o band un tantino meno importanti, la buona musica è sempre assicurata. La serata in questione, mentre il vociare alcolico proveniente dal bancone crea sempre un piacevole sottofondo, viene aperta dai bravissimi Giulia Kom, giovane quartetto rock di belle speranze (Giulia Kom – voce, Andrea Campisano – chitarra, Enrico Visvi – basso, Luciano de Vita – batteria). La robusta sezione ritmica e le note fluenti del chitarrista formano le travi di legno del palcoscenico sul quale si esibisce la meravigliosa voce della cantante: ogni brano ha una sua ricerca musicale particolare, ed i “voli” di Giulia cercano in ogni occasione un lido diverso, una linea sonora inaspettata. Davvero un piacere per le orecchie. Suonano circa sei pezzi, chiudendo con Chiara. Applausi meritati. Se vi capita andate a vederli dal vivo, ne vale davvero la pena. Poi il palco viene risistemato. Dalla platea Guido Brunetti, il simpatico leader dei Neverhush, con la sua voce potente dice che ora tocca a loro. Il gruppo si sistema, imbraccia chitarre e bacchette, e si parte. Stasera il Jailbreak ha tanti tavoli sparsi in sala, l’acustica è molto buona e le persone si agitano gridando qualcosa verso il palco, bevendo una pinta di chiara. I Neverhush attaccano con la corrente elettrica. L’heavy-rock genuino che parte è ben riconoscibile: ma con l’aggiunta di un’ottima presenza scenica e dei testi in italiano, la musica si fa davvero interessante. Anche perché la cosa bella è vedere che i ragazzi suonano fin da subito con passione, come di chi la musica la fa per sfogarsi e stare bene. Insomma: suonano semplice e puro hard rock, e non serve nient’altro. Un concerto d’altronde deve coinvolgere, far scaricare il pubblico e tirare fuori tutta l’adrenalina che c’è dai pori della pelle, senza troppi giri mentali. Questo è appunto un concerto dei Neverhush. Fondato nel 2003, il gruppo è passato attraverso momenti buoni e altri meno facili: per esempio i cambi di formazione che hanno visto l’addio di membri storici.
Ma il progetto è proseguito, ed oggi è più vivo che mai. I ragazzi paiono divertirsi a suonare insieme, e questa è la cosa fondamentale per tirar fuori buona musica. Gabriele Montemarà è alla batteria, Fabio Carnevali al basso, Stefano (Er) Cascio alla chitarra solista ed infine Guido Brunetti alla ritmica ed alla voce. Uno dietro l’altro i ragazzi sfoderano i loro pezzi migliori, alcuni potenti e altri tendenti alla rock-ballad: Mi perdo nel tuo sguardo, Immagine di cenere, Energia, Tutto quello che c’è, Uno squallido quadro, Autostrada per l’Inferno. Si sentono tutti gli influssi italiani e stranieri che il gruppo ha ricevuto: Litfiba, i primi Timoria, Metallica, Iron maiden, Led Zeppelin, Deep Purple (un mix di grandissimi classici n.d.r.), ma anche tanto hard rock californiano anni ottanta. Quest’ultimo è presente pesantemente, determinando la componente molto “fisica” della loro musica. Tra un pezzo e l’altro, Guido dice due parole al pubblico, con un forte e genuino accento romano. Di come è nato il pezzo che si apprestano a suonare, o a chi è dedicato. Molto spesso, del resto, complice Er Cascio intento a riaccordare la chitarra, Guido è costretto a intrattenere il pubblico. Il paio di siparietti che ne scaturiscono sono molto divertenti, e mantengono alta l’atmosfera (Guido rivolto a Er Cascio: “Accordi, accordi, ma che cazzo t’accordi? Mica siamo all’Olimpico! E suona!”).
Una piccola parola va spesa per le liriche del gruppo: il loro livello sta crescendo, e comunque va incoraggiato sempre un gruppo che non si abbandona all’inglese, e anzi cerca di sfruttare la propria lingua per creare la cornice adatta alla propria musica. Il compito non è così facile perché l’hard rock, il metal, sono generi storicamente poco italiani; ma la resa è buona, tanto più che molti loro testi parlano di cose nelle quali ci si riconosce facilmente: la difficoltà di restare se stessi e non farsi sporcare dal mondo moderno, forse troppo lurido, ormai; la voglia di vita e di energia, per battere i momenti difficili che la vita ti sbatte in faccia; la sensazione a bruciapelo che ti da la persona che ami quando la guardi; la musica che ha il potere di salvarti dalla malinconia, che ti salva la vita. Chi è di Roma, specialmente, capisce la genuinità del gruppo, e la sua voglia di farcela, di non mollare mai. La voce di Guido poi è molto profonda, piena, potente, e concede spazio a svariati intermezzi melodici: il gruppo, sapientemente, lo accompagna nell’avventura. Alla fine del concerto si crea un gruppetto sotto il palco, che canta l’ultimo brano: E’ la fine del rock ‘n’ roll. I Neverhush prolungano il pezzo, inserendoci sopra frammenti di U2 e Nickelback. Schitarrata finale, piatti, e il concerto finisce. E’ stato bello, ne è valsa la pena. Semplicità adrenalinica. Poi quando esci dal Jailbreak e vedi le rampe grigie rialzate della Tiburtina, ma nelle orecchie senti ancora una specie di musica invisibile che ti incoraggia e ti abbraccia, capisci che il rock ha salvato ancora una volta la notte.
Un ringraziamento speciale al Jailbreak live club per averci ospitato durante questo evento.


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