Verbal – Verbal – Neverlab 2012 (di Bernardo Fraioli)

Il superamento del confine del genere sembra essere un passo obbligato.
Presentarsi spogli di un’etichetta, uno stereotipo, un qualsiasi segno di appartenenza ad una scena è l’ultimo approdo delle formazioni esordienti.
Dato fuoco all’ennesima inutile, ombrosa bandiera di riconoscimento cieco, i Verbal si affacciano nella primavera del 2012 con l’omonimo album di debutto.
Se impossibile stringere la formazione ad una definizione, se ne elencano facilmente le correnti. La musica dei Verbal è il riflesso di un fortunato incidente tra Big Black, Sonic Youth e Mogwai.
Hanno succhiato le più vive essenze dal math rock, noise e post rock espirando un prodotto dalle forti tinte sperimentali.
E’ musica di caos, di riflessione, di ricerca e di intimismo.
Gioca in attacco con suoni cupi e incalzanti, riposando solo in brevi attimi di respiro.
Da dove nasce il sound della band?
Verso la fine del 2009, in quel di Bergamo, quattro ragazzi si incontrano per portare all’interno del progetto il proprio stile, le proprie idee e la propria competenza stilistica: sono Isaia Invernizzi (chitarra, omnichord), Marco Parimbelli (chitarra, glock, percussioni), Sebastiano Ruggeri (batteria) e Gregorio Conti (basso).
Passa poco tempo e al combo si unisce il polistrumentista Marco Torriani,(tastiere, voci sature, campionatore, tubi, giocattoli e sonagli),  esempio di traduzione del rumore in sound e fantasia.
Compattate le influenze dei cinque, lo sforzo comune porta alla nascita di Verbal, album che adotta il nome della band, districandosi in sei tracce di rock dal piglio avanguardista.
Ucciso letteralmente il cantato nei brani, i bergamaschi ricorrono più volte all’incursione di voci camuffate e campionamenti vocali per donare un accento di originalità al tutto.
Poco viene lasciato al caso.
Le due terzine di titoli del disco, riportano nomi noti, storici e anonimi.
Rimandano ognuno ad una determinata esperienza, una precisa dimensione, un concetto diretto dall’ausilio di quelle poche parole che si possono udire dal primo all’ultimo minuto.
Effettivamente bisogna ricorrere anche alle stesse illustrazioni che i Verbal offrono per una corretta interpretazione del loro primo prodotto.
Spiegano dunque che l’esordio è un vero e proprio “percorso di sei tracce, ciascuna titolata con un nome, che è il rimando diretto ad un mondo o a una fantasia, in cui si confondono immagini e tensioni…”.
Nel disco è dunque possibile ascoltare i campionamenti delle voci di Orwell nella quarta traccia intrecciarsi con quelle di animali imbizzarriti, dando eco ad una delle maggiori opere dello scrittore; così come nella successiva Benny Hill (hates sports) la risata del comico inglese va a scontrarsi paradossalmente con trame oscure e sinistre.
In Kaspar Hauser si ricorda un orribile fatto di cronaca della prima metà dell’ottocento tedesco ai danni di un bambino segregato per dodici anni, gonfiando l’angoscia dell’ascoltatore in un’ossessiva ripetizione di “Scheibe, mein kind”(“merda, il mio bambino”).
Aggiungono Double D Marvin, open track composta tra parenetesi di “Free jazz” di Ornette Coleman ed altre delle Andrews Sisters; Coronado, ispirata dall’ omonimo conquistadores spagnolo del ‘500, esempio della cupidigia e della bramosia di potere; Kobayashi, titolo tratto da uno dei più diffusi cognomi nipponici e conseguente emblema della cancellazione dell’identità del singolo.
Sei tracce sono dunque bastate a questa nuova formazione per presentarsi al pubblico, tutte registrate in presa diretta ma con un risultato qualitativo ottimale.
Segno inequivocabile di una sicurezza comprovabile anche in sede live.
Tracklist:
 
01. Double D Marvin
02. Kaspar-Hauser
03. Coronado
04. Orwell
05. Benny Hill (Hates Sports)
06. Kobayashi


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