Fear Factory + Havok live @Orion live club, Roma (testo e foto di Stefano D’Offizi)

Potenza, sudore e rabbia, queste le prime tre parole che mi vengono in mente parlando di Fear Factory, una delle primissime band a venir ettichettate come industrial metal. Vengono dagli Stati Uniti, più precisamente da Los Angeles, fucina sfornagruppi di un certo peso internazionale e di ogni genere, segno che il seme della follia prospera a dovere in quella zona. Diversi avvicendamenti in formazione nel passare degli anni che non hanno comunque mutato più di tanto uno stile riconoscibile, e che negli anni ha saputo ritagliarsi una fetta importante di pubblico, oltre che dare vita a decine di band clone ed aver collaborato nella nascita di un genere a se.
L’Orion live club offre una cornice assolutamente di livello, soprattutto quando si tratta di artisti di un certo stampo, capaci di smuovere un pogo di qualche centinaio di teste decise a non mollare, neppure dopo un’ora e passa di massacro sonoro.
La serata inizia con l’esibizione degli Havok (niente a che vedere con l’omonima band black metal Italiana), formazione che non conoscevo assolutamente, e di cui ora sarei pronto a consigliare un adeguato approfondimento. Questi ragazzi dimostrano una grinta davvero invidiabile, quasi un’ora di headbanging vecchia scuola ed un repertorio degno di quel thrash anni novanta che un po’ manca ad orecchie provate dalla (ormai esaurita) vena nu metal o metal core che si voglia. Energia pura, mista a tecnica quanto basta (che non guasta mai) ed i giusti ritmi, spinti sicuramente dalla voglia di farsi notare ed apprezzare da chi non li conosce, applaudendo (loro per primi) quanti tra i presenti, cantano ed acclamano i loro brani. Che si tratti di un fenomeno in crescita? Il loro sound riprende a tratti le prime comparsate di Slayer e Sepultura, mantenendo una buona dose di personalità anche nella voce di David Sanchez (voce, chitarra ritmica) meno urlata forse, ma comunque graffiante.

Completano la line up Reece Scruggs (chitarra solista), Jessie de los Santos (basso, costui è il mio eroe) e Pete Webber (batteria). Niente da invidiare a band di fama più pomposa e conosciuta, sono giovani, hanno fame e voglia di emergere, ascolto ancora una volta consigliatissimo!
Come sempre, breve pausa per il cambio palco, si entra in un’atmosfera decisamente più tetra ed inquietante, e dopo qualche minuto di attesa, le luci calano, introducendo con un intro sinistro, l’ingresso dei Fear Factory. Burton Christopher Bell, voce dei Fear da sempre, è in splendida forma (per quanto possa significare forma in gergo thrash…) mostrandosi in tutto il suo essere già sudato e provato, come se avesse fatto ginnastica facciale nel backstage, pronto a sfasciarci le orecchie con i suoi ululati non sempre intonatissimi, del resto chi è accorso all’Orion stasera, non aveva certo l’intenzione di ascoltare Chopin. Dino Cazares, tornato in formazione dal 2009, non è certo da meno, sfoggia una linea invidiabile, a cavallo fra i lottatore di sumo ed un’autocisterna parcheggiata sulle strisce pedonali; naturalmente, sul manico della sua Ibanez sa essere anche leggiadro come una ballerina di tip tap. La dipartita di Gene Hoglan, ha portato a sedersi dietro le pelli un certo Mike Heller, (già System Divide) drummer davvero potente e preciso, ed almeno in questa band, non ci fa sentire la mancanza di un nome ingombrante come quello di Hoglan.

Ripropone con studiata perfezione ogni brano, senza perdersi un istante, agganciandosi alla grande con le quattro corde di Matt DeVries, precedentemente chitarrista nei Chimaira, altra formazione di tutto rispetto. Se c’è un pregio che possiede l’Orion, è di certo quello di offrire una visuale ottima da ogni angolazione, grazie anche alla conformazione ad anfiteatro che regala ottimi scorci da tutte le posizioni, inoltre, la distanza fra band e pubblico è davvero poca, permettendo ad entrambi di avere uno scambio umano di calore e partecipazione. L’approccio dei Fear è chiaramente indirizzato in questo senso, ed a turno, Cazares e Bell, si sporgono oltre il limite del palco, offrendo microfono, plettri e sudore (quest’ultimo anche ai poveri fotografi), ai fan più incalliti che s’immolano nella folla, ignorando spinte, bestemmie ed ovviamente gomitate. Il paradiso del thrash!
Tra Smasher Devourer e Christploitation, si consuma il banchetto di timpani che saltano un po’ ovunque, i livelli acustici sono davvero alti, forse tecnicamente sballati, o forse siamo semplicemente troppo vicini, ma non importa affatto, è così che ci piace, e non c’è spazio di replica in nessuna direzione, è già il momento di Recharger, Martyr e subito dopo Scapegoat, ed il fiato che abbiamo è davvero poco. Un esausto Bell, ripeterà diverse volte la data dell’imminente uscita del loro ultimo lavoro: The Industrialist, e qualcuno tra il pubblico urla scherzosamente “Ao! Avemo capito…Sona!” quindi parte un divertente siparietto con Cazares che ripassa qualche parolaccia in gergo tricolore, prontamente rimpolpato di bestemmie (probabilmente lo stesso di prima), il preludio a Zero Signal, in cui le ultime scintille di pogo, accendono la fiamma che si spegnerà solo dopo la conclusiva Replica. Un altro ottimo tassello nel mosaico dell’Orion, che continua a collezionare nomi su nomi di un certo spessore, un’altra notte brava nell’uggiosa periferia di Roma.

 

  

Un ringraziamento speciale a Daniele Mignardi Promopress Agency ed Orion live club per averci ospitato durante questo evento


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