Keith Tippett e Giovanni Maier – Two for Joyce, Live in Trieste – Long Song Records/Audioglobe, 2013 – (di Flavio Centofante)

Improvvisazione jazz forse no, usiamo un termine più generale: improvvisazione musicale. Fatta da due artisti che possiedono le tre cose fondamentali per essere – secondo una definizione cara a noi esseri umani – bravi musicisti. Le tre cose in questione sono la tecnica, l’esperienza e, la più importante, la curiosità. Keith Tippett è attivo da tanto di quel tempo che forse non se lo ricorda più: è molto probabile che ormai ragioni in termini di concerti piuttosto che di calendario: Keith, oltre che pilastro del pianismo avant-jazz  inglese ed europeo da oltre quarant’anni, ha la particolarità di riuscire a dare…

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Improvvisazione jazz forse no, usiamo un termine più generale: improvvisazione musicale. Fatta da due artisti che possiedono le tre cose fondamentali per essere – secondo una definizione cara a noi esseri umani – bravi musicisti. Le tre cose in questione sono la tecnica, l’esperienza e, la più importante, la curiosità. Keith Tippett è attivo da tanto di quel tempo che forse non se lo ricorda più: è molto probabile che ormai ragioni in termini di concerti piuttosto che di calendario: Keith, oltre che pilastro del pianismo avant-jazz  inglese ed europeo da oltre quarant’anni, ha la particolarità di riuscire a dare vita ad un pianismo tanto inventivo e grandioso quanto profondo ed austero.

A lui, in questo bellissimo live a due registrato a Trieste, si unisce Giovanni Maier, uno dei migliori bassisti jazz italiani attivo da almeno vent’anni. Keith e Giovanni si conoscono da molto tempo e insieme hanno dato vita all’ensemble “Viva La Black” del trombettista Pino Minafra. Eccoci, dunque: questo live a due, un’esibizione immersa nei pentagrammi invisibili della sera. Una performance di 50 minuti di musica improvvisata, una sola affascinante traccia nella quale i due artisti sfoderano un’enciclopedia di gemme esecutive di rara bellezza. 

Anche la copertina dell’album è particolarmente bella. Si può immediatamente comprendere che tipo di disco sia questo: uno di quelli che bisogna davvero ascoltare, e non lasciare in sottofondo, proprio per cogliere tutte le fughe, tutte le stonature attivamente volute, i guizzi e le invenzioni di pochi secondi. Il basso di Maier è molto corposo, ingombrante, e pare possedere un’infinita gamma di soluzioni e suoni: pizzicato, percosso, malmenato, accarezzato, abbracciato, picchettato. Tutti gli spigoli sonori creati dal basso vengono accompagnati dal trillo rapido o lento del piano di Tippett, che pare avere tantissime dita. 
Non c’è uno strumento che fa l’accompagnamento o la base e l’altro è protagonista: è un gioco a due, si va di pari passo, e se c’è una presa di potere da parte di uno dei due, dura comunque poco. E’ un dialogo, come può accadere spesso nel jazz d’avanguardia, ma anche in quello più classico.

 

I bassi del basso, i picchi del piano. Due facce della stessa medaglia, che osano strade ardite, oppure rilassano l’orecchio con morbidi suoni. Si coglie facilmente quanto grande sia l’intesa fra Tippett e Maier: solo a metà traccia capiamo che il terzo strumento siamo noi, col nostro respiro curioso, mentre ci perdiamo un poco nelle possibilità umane di creare.
Gli uomini hanno costruito le città, hanno dato vita a chiese di rara bellezza e opere d’arte dal valore inestimabile, insomma hanno generato bellezza, sempre con i loro cuori e le loro mani. Nessuno strato soprannaturale, nessuna magia. Solo tessuti muscolari e cervello. La bellezza. E poi, appunto, poi c’è la musica. C’è un live come questo. E quindi c’è ancora speranza.
Tracklist:
1. Two for Joyce


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