Queens of the Stone Age – …Like Clockwork (Matador Records, 2013) di Daniele Dominici

Orgoglio e travaglio. Due termini giusti per racchiudere idealmente l’ultima fatica dei Queens of the Stone Age  ".. Like Clockwork", in uscita il 3 Giugno 2013 in tutto il globo terracqueo.  Partiamo dall’orgoglio, forse perché  più facile da descrivere quando ti chiami QOTSA. Non è impresa da poco ritagliarsi, nel ventunesimo secolo, una fetta importante di mercato discografico; come è altrettanto difficile conquistarsi uno zoccolo duro di fans adoranti che non cambino bandiera al primo assolo diversamente distorto. La crisi nelle vendite dei supporti CD, il boom delle piattaforme per l’acquisto delle canzoni via web, l’alto costo dei live…

Score

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ARTWORK
POTENZIALITA'

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Orgoglio e travaglio.
Due termini giusti per racchiudere idealmente l’ultima fatica dei Queens of the Stone Age  “.. Like Clockwork”, in uscita il 3 Giugno 2013 in tutto il globo terracqueo.  Partiamo dall’orgoglio, forse perché  più facile da descrivere quando ti chiami QOTSA.
Non è impresa da poco ritagliarsi, nel ventunesimo secolo, una fetta importante di mercato discografico; come è altrettanto difficile conquistarsi uno zoccolo duro di fans adoranti che non cambino bandiera al primo assolo diversamente distorto.
La crisi nelle vendite dei supporti CD, il boom delle piattaforme per l’acquisto delle canzoni via web, l’alto costo dei live e l’impoverimento delle strutture pronti ad ospitarli, sono tutti elementi da non trascurare quando ci si affaccia con una certa spocchia su un palcoscenico già saturo. Con una certa spocchia, esatto. Si parla ovviamente di  Josh Homme, voce/chitarra e deus ex machina della band Californiana in questione, nonché unico membro permanente  dalla nascita del gruppo (ufficialmente 1996) e artefice di maggioranza dell’impresa che si è descritta pocanzi: guadagnarsi una vetrina affermata nel panorama Alternative.
E pensare che un palcoscenico di tutto rispetto il buon Homme l’aveva già sperimentato con l’exploit dei noti Kyuss, band genitrice dei futuri QOTSA, anche se il successo di album come Songs for the Deaf del 2002 (top ten in Australia, Belgio, Norvegia e Gran Bretagna, e top venti in Finlandia, Italia,Lullabies to Paralyze del 2005 (settimo miglior album dell’anno per Billboard Magazine) rimangono picchi qualitativi che danno visibilità per anni, a volte per decadi.
Proprio con l’orgoglio di risultati eccellenti, ottenuti con collaborazioni altrettanto eccellenti (in Songs for the Deaf è possibile veder duettare due nomi del calibro di Dave Grohl alla batteria e Mark Lanegan a chitarra e voce), Homme aspettava di poter mollare gli ormeggi e doppiare  il tiepido successo di “Era Vulgaris” (2007), ultima fatica in ordine cronologico.
Attesa fruttuosa? Qui  comincia il travaglio. Sebbene infatti l’inizio dei lavori per un nuovo album venne annunciato addirittura nel 2008, la band ( Josh Homme – voce, chitarra, cori; Troy Van Leeuwen – chitarra, cori, percussioni, tastiere;  Dean Fertita – tastiere, chitarra, cori, percussioni, piano; Michael Shuman – basso, cori, tastiere) di fatto non si è mossa operativamente prima di Agosto 2012, mese di inizio registrazioni. Nel mezzo la decisione di autoprodursi, dopo il rifiuto di Trent Reznor (genio-mente dei Nine Inch Nails e amico di Homme) di condurre le operazioni.
A metà del processo di registrazione, il batterista Joey Castillo decide di lasciare la band, venendo rimpiazzato nuovamente  da Dave Grohl (che non prenderà parte, in compenso, ad alcun live). Ne uscirà un prodotto finale con ben tre batteristi diversi alle pelli: Dave Grohl, Joey Castillo e Jon Theodore, nuovo batterista in pianta (in)stabile.
Anche stavolta la lista delle collaborazioni mette soggezione: oltre ai già citati Trent Reznor (la cui influenza nel disco rimane assoluta) e Dave Grohl, troviamo Nick Oliveri (bassista, già comparso in ‘Rated R’ e il masterpiece ‘Songs for the Deaf’ ) ancora Mark Lanegan (cori sparsi), Alex Turner degli Arctic Monkeys , Brody Dalle  (moglie di Homme ed ex leader della band postpunk Distillers) e addirittura, udite udite, Sir Elton John, ovviamente al pianoforte, in un singolo pezzo.

Il risultato di orgoglio e travaglio? Dieci tracce controverse.

Si inizia con  Keep Your Eyes Peeled, preludio intrigante e tutto sommato abbastanza incisivo. Ritmi compassati, distorsione contenuta e un testo etereo a fare da contorno (Danger, monsters of smoke & mirror). L’immaginazione corre verso un posto misconosciuto, frequentato per la prima volta con molta, molta diffidenza. C’è un bridge alla QOTSA, ma è poca roba, il brano nel complesso appare gradevole.
Si entra nel vivo con la seconda traccia I Sat by the Ocean, sicuramente uno dei pezzi più convincenti. Per tanti motivi. In primis perché viene riproposto un progetto già collaudato da Homme negli album precedenti, aggiornandolo per non cadere nello scontato e nel tralasciabile. In secundis perché (paradossalmente) su questo pezzo non ci sono collaborazioni. E, me lo si conceda,  si sente. Ed infine perché è presente il pathos dei QOTSA: c’è il cantato spassionato di Homme, c’è un basso ammaliatore e, soprattutto, il brano è convincente dal primo all’ultimo minuto.
La terza traccia, anch’essa senza collaborazioni, si apre con il piano malinconico di Troy Van Leeuwen a fare da spartiacque ad un componimento difficile da criticare (coglie nel segno, non c’è dubbio), ma altrettanto arduo da interpretare a tutti gli effetti. Il ritmo rimane compassato (a dir poco), la voce di Homme è un ottimo contorno, ma mai un ‘quid’ di cui fare menzione.  La chitarra marpiona e la voce a tratti implorante rimandano intensamente a ‘Mosquito Song’, caposaldo del già più volte citato, ‘Songs for the Deaf’: il peso specifico, sia chiaro, rimane molto differente. Per inquadrarlo ci vorrebbe un obiettivo blues, con una lente pop.
In If I Had a Tail prosegue un trend pacatamente positivo.  Mancano sicuramente gli affondi epici di produzioni più importanti, ma le collaborazioni di Nick Oliveri, Mark Lanegan e Alex Turner donano una certa solidità al pezzo. Attenzione: non che i tre si notino per le loro peculiarità (si fa davvero fatica a carpire i cori di Lanegan nonostante il suo timbro sia tra i più inconfondibili sulla scena mondiale) , ma perlomeno il loro apporto compositivo ha giovato all’economia complessiva del motivo. Le liriche rimangono oniriche, ma allo stesso tempo minimaliste, creando un’atmosfera dolcemente psichedelica.
Arriviamo al singolo My God is the Sun, eseguito in anteprima mondiale, allo show televisivo  della BBC‘Zane Lowe’s Radio 1’ l’ 8 Aprile scorso. Nella ricezione del  pezzo possiamo riscontrare immediatamente un’anomalia. Il singolo rilasciato in anteprima, a conti fatti, risulta essere uno delle migliori melodie dell’intero album. Viene da chiedersi: è una scelta voluta? Difficile. Dal punto di vista commerciale, lanciare in anteprima il miglior pezzo dell’album è spesso controproducente (nonostante fosse la regola, per esempio, negli anni 80’). Eppure My God is The Sun  si erge a punto di rottura di tutto il disco. Vuoi per il metronomo che finalmente ricomincia a correre, vuoi perché ritornano tutti gli schemi che hanno reso celebri i QOTSA (linee di basso serrate e potenti;  assoli brevi ma efficaci). Vuoi per la batteria di Grohl, che per la prima volta non pare essere campionata. Insomma:  le premesse di qui in avanti non verranno disattese.
Ed invece con Kalopsia  viene riproposto lo schema lento-forte che sembra attanagliare questo disco dalla prima all’ultima traccia (nonostante i volumi rimangano piacevolmente alti). Il mixaggio, per carità,  è da applausi: (ah vero, questa è la traccia in cui collabora Trent Reznor) suoni puliti, pompati e perfettamente integrati tra loro. Ma con l’oggettività che conviene in queste occasioni, il brano raggiunge al massimo una sufficienza con lode. Poca sperimentazione, testi poco più che in linea con la melodia, un noise finale che chiude la composizione in maniera quasi amara.
Siamo al clou: Fairweather Friends, che dovrebbe  rappresentare l’apice compositivo del disco (sono concentrate in esso tutte le collaborazioni principali: Elton John, Trent Reznor, Nick Oliveri, Mark Lanegan, Alain Johannes e Brody Dalle). Ne risulta un brano che per voler mettere d’accordo tutti, non mette d’accordo nessuno. Nessuna delle guest eccellenti pare dare un apporto decisivo. Nessuna tranne una: Dave Grohl, che probabilmente se avesse introdotto questo pezzo nell’ultimo dei Foo Fighters (Wasting Lights ndr), nessuno avrebbe gridato allo scandalo. Pezzo volutamente soffice, dalla struttura semplicerrima (il piano di Elton John a tratti è irritante), con un testo lontano non solo dai canoni della band, ma anche del disco nel suo complesso (si parla di struggenti amicizie).
Chiudono l’album tre pezzi (senza collaborazioni) che in teoria dovrebbero garantire il crescendo finale ma che, in pratica, finiscono per condannare il disco ad una ghettizzazione autoimposta. Smooth Sailing appare convincente solo per due motivi: il primo è che pare copia-incollata da un progetto parallelo del buon Homme, i Them Crooked Voltures (dove compaiono anche Dave Grohl e John Paul Jones dei Led Zeppelin ndr), che hanno strappato una levata di consensi da parte di critici e addetti ai lavori. Il secondo è la genialata che chiude il pezzo: una distorsione malata che ricorda a tutti quali siano i margini compositivi effettivi  dei QOTSA .
I Appear Missing segue fedelmente i canoni dei pezzi precedenti. Linee depresse ed esplosioni di chitarre distorte a tratti, niente che faccia alzare l’asticella o gridare al miracolo.
Pochi cenni sulla title track Like Clockwork, una ballad accompagnata da un piano funereo che molti maligni potrebbero scambiare come un dichiarato canto del cigno per Homme e soci.
Dare un giudizio complessivo, in conclusione, appare difficile. Partiamo dunque da alcuni punti fermi. ‘..Like Clockwork’ non appare un album spiacevole all’ascolto, è figlio di una produzione importante e di collaborazioni eccellenti, che gli evitano la vergogna insostenibile dell’insufficienza. A gradevoli alti, come My God is the Sun  e Kalopsia,  alterna altrettanti noiosi bassi (la title track su tutte). Di contro, nessuna delle già citate collaborazioni appare incisiva ai fini stilistici dell’album, spingendo l’ascoltatore quasi a chiedersi :”… E se fossero stati soli? Forse l’amalgama ne avrebbe goduto?”;  anche la scelta di spingere a fasi alterne sull’accelleratore, a beneficio di melodie più dolci e vellutate, in fin dei conti appare troppo ardita per un gruppo che non dovrebbe avvicinarsi in breve tempo al viale del tramonto.
In sintesi: è sbagliato guardare ciclicamente con nostalgia ad album come Songs for the Deaf e Lullabies for Paralyze, ma quest’album non è la giusta via sperimentale.
Tracklist:
 
1. Keep your eyes peeled (ft. Jake Shears)
2. I sat by the ocean
3. The vampyre of time and memory
4. If i had a tail (ft. Alex Turner, Nick Olivieri and Mark Lanegan)
5. My God is the sun
6. Kalopsia (ft. Trent Reznor)
7. Fairweather friends (ft. Elton John, Trent Reznor, Nick Olivieri, Mark Lanegan, Alain Johannes, and Brody Dalle)
8. Smooth sailing
9. I appear missing
10. …Like clockwork



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