Black Sabbath – 13 (Vertigo/Republic, 2013) di Daniele Dominici

Black Sabbath 13Scrivere dei Black Sabbath senza scadere in deplorevoli banalità è davvero difficile. Si rischia sempre di rimanere in superficie con qualche aneddoto di troppo su pipistrelli spolpati e bagarre contrattuali da milioni di quattrini. Ed è altrettanto difficile parlare di questo ‘13’ uscito il 10 Giugno in tutto il globo attraverso Vertigo Records (Inghilterra) e Republic Records (per gli USA), senza lasciarsi andare a commenti su ciò che è stato e ciò che verosimilmente sarà il futuro dei Black Sabbath.
Ma partiamo dall’inizio. L’idea per la reunion degli hard rockers di Birmingham, Inghilterra, nasce a fine anni 90’. Dopo alcune date insieme e sporadiche apparizioni qua e là (Ozzfest su tutte), la line up storica del gruppo, Ozzy Osbourne, voce, Tony Iommi, chitarra, Geezer Butler, basso e Bill Ward batteria, decide che è il caso di imbracciare di nuovo gli strumenti e a cinquant’anni suonati, buttarsi per l’ennesima volta nell’ affollato panorama discografico. I padri fondatori  di album cult come ‘Paranoid’ (1970) e ‘Sabbath Bloody Sabbath’ (1973) e di un immaginario generazionale fatto di esoterismo, melodie cupe e testi provocatoriamente Satanici, stavano però per essere travolti da quel compendio di difficoltà che assale ogni band sull’orlo del quarantennale di carriera: problemi contrattuali, mancanza di comunicazione e qualsiasi altro glossario di intoppi uniti al vil denaro.
Se infatti i primi contatti avvengono nel 1999, è solo due anni dopo, nel 2001, che viene ufficiosamente confermata la reunion tanto attesa. Ed anzi si comincia subito a lavorare sodo per un nuovo album con il produttore Rick Rubin (Metallica, AC/DC, Linkin Park), proprio per non sprecare altro tempo.
Vissero tutti felici e contenti? Forse in un’altra vita. Di lì in avanti si presentano tanti di quei contrattempi da far invidia ad un film di Mister Bean. Alcuni, per carità, autoimposti. Osbourne viene, infatti, letteralmente risucchiato dal mondo dello show biz e tra un progetto solista ed un Emmy per un reality basato sulla sua famiglia (‘The Osbournes’ ndr), manda all’aria qualsiasi spiraglio rimasto per la prosecuzione del songwriting.
Ad onor del vero anche Iommi e soci, vista la volatilità del cantante in pectore, prendono la palla al balzo e rispolverano un’altra formazione storica dei Sabbath, quella ‘made in 80’s’ con l’icona Ronnie James Dio alla voce (..e Vinnie Apice alla batteria ndr). Ne seguirà addirittura la scrittura di nuovo materiale (The Devil You Know, 2009) e la progettazione di un tour,  sotto lo pseudonimo di Heaven & Hell (nome dell’album del 1980, proprio con Dio alla voce ndr). Ma quasi a sparigliare  ulteriormente le carte in tavola, purtroppo, arriva la tragica notizia della morte dello stesso R. J. Dio per un cancro allo stomaco a Maggio 2010. Si preannunciano evoluzioni.
A Novembre 2011 i tempi paiono maturi: dopo una serata in pompa magna al ‘Whisky a Go Go’ in Hollywood, California, la formazione originale dei BS ‘ufficializza’ nuovamente la reunion, con tanto di tour, nuovo album e tante care cose agli scettici. Iommi intervistato appare convinto ‘E’ ora, o mai più’.
Se fossimo in un film, a questo punto la voce a margine reciterebbe ‘…Ma altri eventi nefasti attendevano i nostri eroi dietro l’ angolo’. Incredibile ma vero, a Tony Iommi viene diagnosticato un principio di linfoma a Gennaio 2012, con buona pace della stabilità per l’ impellente tour, del processo di scrittura (le registrazioni vengono trasferite dalla California a casa di Iommi nel Regno Unito) e delle coronarie dei fan, vittime occasionali di una cronistoria davvero senza fine.
Se non bastasse, anche Bill Ward decide di fare le bizze, escludendosi dal progetto-reunion a causa di non ben specificati problemi contrattuali. La presa di posizione rimarrà irrevocabile.
E così dopo due uniche date live (una al Download Festival e l’altra al Lollapalooza), ormai un anno or sono, Osbourne e soci contro ogni previsione riescono a bruciare tutte le tappe rimanenti per l’uscita dell’album. Prima il titolo del lavoro, ‘13’, in bilico fino all’ultimo a detta di Geezer Butler. Poi l’annuncio che a finire le registrazioni al posto di Ward sarà Brad Wilk, batterista dei Rage Against the Machine. Infine viene reso pubblico a due mesi dall’ uscita  il primo singolo God is Dead?, che già fa pregustare al pubblico un’atmosfera tanto familiare quanto elettrizzante.BS
Per riassumere quest’album basterebbe in fin dei conti fidarsi della copertina realizzata dalla compagnia Zip Design in collaborazione con l’artista Spencer Jenkins ed il fotografo Jonathan Knowles: un numero 13 infuocato, in lenta liquefazione, su uno sfondo boscoso notturno, cupo e ottenebrante. Un omaggio al passato, con un occhio abbastanza pigro al futuro.
Otto brani, lunghezza media altissima (circa 6 minuti ndr), ognuno dal titolo evocativo e tanti buoni propositi belligeranti.
Il primo, End of the Beginning, inizia con una lentezza mostruosa ed un background che pare tratto da un film di Dario Argento. Il cantato di Ozzy è mixato alla perfezione, l’età sembra non essere un’ aggravante, nonostante il colore della voce alla lunga potrebbe stancare. Poche parole vengono scandite con la giusta pesantezza. Dopo l’intro che ci introduce nell’antro infernale appena descritto, c’è lo ‘stop’ che i fan attendevano da almeno trent’anni (l’ultimo album con questi protagonisti è del 78’): riff minimale di Iommi ed il pezzo che deflagra in una cavalcata telefonata, ma davvero prorompente. Di qui in avanti il brano cambierà binari un paio di volte, nonostante il manifesto del disco sia già ben impostato: heavy metal vecchio stampo, ’Black Sabbath style’. Sotto i riflettori il buon assolo finale di Iommi, padre putativo di tanti chitarristi solisti ancora oggi sulla cresta dell’onda.
Anche il singolo  God is dead?  (apprezzabile per una straordinaria copertina con un Nietzsche dalla barba dipinta di viola) irrompe sulla scena con una prima parte lentissima, batteria minimale e basso di Butler a ‘portare’ il brano in sostituzione della chitarra. Il ritornello vorrebbe dare un tocco di epicità, con la domanda esistenziale  Is god dead?  ripetuta fino allo sfinimento.La voce cantilenata di Osbourne (parzialmente rinvigorito dopo l’ennesima rehab da alcol e droghe) ci porta ad una variazione/ripetizione del ritornello precedente. Un buon ascoltatore (o un fan di vecchia data) probabilmente aspetta con trepidazione la nuova cavalcata. Puntuale Iommi ci invita a nozze con un riff-ponte che prelude appunto a ‘sua maestà’ la cavalcata, pietra angolare di tutta la discografia Sabbathiana. Anche il pre-assolo è  oggetto di studio per i bassisti in erba, con Butler ad arpeggiare con maestria imbarazzante.
Anche Loner  invita gli ultrà dei Black Sabbath a ripetuti esercizi di memoria. il riff principale del brano è infatti un tributo nemmeno troppo velato a  Nativity in Black (meglio conosciuta come ‘N.I.B.’ ndr), capolavoro del primo album della band, l’omonimo ‘Black Sabbath’. Basta ciò a rendere il pezzo solido, senza troppi sforzi, con la marcia in folle per 5 minuti di conseguente discesa. Interessante l’intermezzo in stile ‘prog’ al minuto 2 e 40, quasi a risvegliare le sperimentazioni di ‘Sabbath Bloody Sabbath’ quarta fatica della band e primo album con forti echi di innesti prog. Ultimo preziosismo: gli urli di Ozzy, che god is deadconferiscono energia ad un cantato altrimenti monocorda.
Prima vera e propria ballad del disco è  Zeitgeist  che prende in prestito il nome dall’omonimo documentario divenuto famoso per le convincenti tesi antigovernative e anticapitalistiche (I BS chiederanno al regista del documentario di girare anche un loro video ndr) .La canzone si apre con la sinistra risata di Osbourne, che di lì in avanti sarà cantore di un pezzo lentissimo, con melodie soffuse ed alienanti. A metà pezzo breve sterzata per sottolineare il testo etereo, quasi singhiozzato, del vocalist; in chiusura breve assolo acustico con ovvi rimandi a sonorità blues.
Traghettati dolcemente verso  Age of Reason, ci troviamo però (nuovamente) dinnanzi ad un brano dalla struttura semplice, con riff ripetuti fino alla nausea intersecati adeguatamente alle linee di basso. Lo stacco strumentale con i cori gregoriani in sottofondo mantiene l’atmosfera ben salda, nonostante non ci fosse mai stato il reale pericolo si disgregasse. A 3:30 circa, nuovo frangiflutti dissonante in stile prog. Il tutto mentre veniamo sballottati tra melodie a volte più dure (si fa fatica a tenere la testa ferma), a volte più solenni, con la finalità nemmeno troppo nascosta di sottolineare l’ assolo di Iommi (uno dei più lunghi del disco). Per la prima volta l’ascoltatore comincia a percepire stanchezza: la durata media alta, i toni pesanti e ripetuti ed il cantato monotono rendono quasi impossibile un doppio ascolto di ogni singola traccia.
Analisi forzatamente più stringata per il secondo brano più corto dell’album, Live Forever . Intro tra i più pesanti, senza compromessi o ricami degni di appunto. Il pezzo è un continuo rimescolarsi di leggere cavalcate e motivi ad effetto (ritornello). E nonostante alla fine la struttura sia un semplice susseguirsi di strofa+ritornello, il prodotto finale non scontenta nessuno: la traccia risulta pienamente sufficiente.
Sfumature decisamente blues per i primi minuti della penultima traccia in scaletta,  Damaged Soul. Atmosfera compassata, lenta, molto emotiva. Il cantato di Osbourne ha l’unico scopo di arruffianarsi i fan, quasi volesse fargli ballare un lento. Irrompe un’armonica, vecchia amica di brani assoluti come  The Wizard (‘Black Sabbath’ ndr). Rimarrà un unicuum gradito.
Il pezzo potrebbe concludersi tranquillamente dopo un altro minuto scarso, invece il pubblico è fiaccato da preziosismi onestamente inutili all’economia del brano, che scaldano il brodo fino a renderlo insipido. Dopo un assolo e un altro bridge insensato, c’è spazio addirittura per un cambio di ritmo all’insù. Siamo ai limiti del jamming live.
Ultima fatica della versione standard del cd (nella deluxe ci sono ben tre brani aggiuntivi) è Dear Father, brano dal testo straziante, rivolto ad un padre negligente ed alla pessima influenza che ha esercitato nei confronti del figlio. Si arriva a questo pezzo decisamente stanchi nell’ ascolto e ciò influisce pesantemente sul giudizio finale. Brano lungo e minimale, intervallato da qualche cambio di ritmo, ancora una volta ampiamente preannunciato. Ozzy prova a risollevarne le sorti con un urlo gracchiante dei suoi (che ricorda molto l’approccio canoro di ‘Crucify the Dead’, brano che compare nel primo album da solista dell’idolo delle folle, Slash, per cui Osbourne presta la voce), ma il finale è in netto calo. Piccolo cameo per i fan: il finale si chiude con un rumore soffuso di pioggia e tuoni, proprio come l’intro del primo pezzo della discografia dei Sabbath, ‘Black Sabbath’.
Merita una breve disquisizione il brano  Methademic, bonus track del disco per la versione ‘deluxe’ dello stesso (assieme a ‘Peace of Mind’ e ‘Pariah’), dove paradossalmente il gruppo di Birmingham mette in musica quella sperimentazione che sarebbe dovuta appartenere a tutte le tracce. Methademic  è un brano diretto, secco, quasi ardito per i canoni di questo disco. Con questo pezzo i Sabbath hanno quasi voluto dimostrarsi che si può fare una grande canzone senza troppa rigidità compositiva. Non si capisce come una traccia così non possa finire tra le otto principali: è l’unica talmente convincente da non stancare mai ed è anche l’unica che rappresenterebbe volientieri la giusta crasi tra presente e passato. Indubbiamente, il genere scardinato da Osbourne e soci, nelle sonorità, si è evoluto nel corso degli anni verso l’uniformità manifestata in Methademic, pezzo a cui non manca nulla, tra riff accattivanti, batteria impudente, cantato sinistro e finalmente una lunghezza appropiata.
Volendo dare un parere finale, insomma, ‘13’ rimane un disco timoroso. Non si concepisce se all’interno della stesura dei brani (effettuata in maniera corale da tutti i membri escluso il batterista) sia stata presente l’ intenzione di voler ricordare a tutti i costi al Black Sabbath 2013pubblico il periodo con Ozzy Osbourne alla voce, che ad onor del vero coincide con lo scorcio più prolifico dell’intera carriera dei Sabbath. Tale scelta stilistica viene disarcionata da una lunghezza media dei brani estremamente lunga e da valutazioni tecniche a volte troppo semplicistiche. Si finisce per apprezzare il disco per motivi totalmente lontani dalla critica artistica, come ad esempio la caparbietà con cui tre signorotti di sessant’anni riescano ancora a tirar fuori lavori di tutto rispetto, all’interno un panorama discografico a dir poco saturo. E se si esce esausti da un ascolto del genere (va ripetuto: non tanto per i contenuti, ma per la lunghezza media), il maggior rimpianto è quello di vedere una traccia come  Methademic  nelle b-sides, quando si poteva tranquillamente elevarla a top brano di tutto il disco e manifesto dei rinnovati intenti dei BS. Evidentemente, ora è chiaro, questo disco è stato utilizzato come arma definitiva, per scrivere un nuovo capitolo nella rivalità tra Osbourne e Dio per la supremazia nei cuori dei fan. Peccato, ma nel tentativo di rimembrare a tutti di che pasta è fatta la prima formazione dei Black Sabbath, il gruppo inglese ha perso la voglia di riaffermare gli standard orgogliosamente lanciati quarant’anni fa. E senza sale, si sà, la buona pasta è comunque da cestinare.

Tracklist:
1. End of the beginning
2. God is dead?
3. Loner
4. Zeitgeist
5. Age of reason
6. Live forever
7. Damaged soul
8. Dear father

—Deluxe edition bonus track—
9. Methademic
10. Peace of mind
11. Pariah


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Stefano Capolongo

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