Mark Knopfler @ Rock in Roma (testo di Daniele Dominici, foto di Fabrizio Bisegna)

IMG_8050Credo che l’unico, vero, desidero per un amante della musica dal vivo (di un certo spessore), sia quello di godersi il live dell’artista designato con la certezza che questo esprima in un paio d’ore la quintessenza della competenza musicale. E quando si parla di ‘competenza’, a scanso di ovvietà strabordanti, parliamo di strumentisti d’origine controllata, con esperienza da vendere, capaci di trasformare una tappa qualsiasi di un tour qualsiasi, in un caleidoscopio di esecuzioni passionali, sentite ed allo stesso tempo tremendamente dignitose. Ma soprattutto la massima espressione della ‘completezza’ del prodotto musicale deve palesarsi anche a coloro che non possono definirsi fan accaniti. Altrimenti il live è a porte chiuse e tante care cose agli amanti delle melodie trasversali.
Bene: prendete i due concetti espressi sopra, amalgamateli al punto giusto ed avrete il concerto del dio della chitarra Mark Knopfler all’Ippodromo delle Capannelle (Rock in Roma) in occasione del Privateering Tour.Un’esibizione musicalmente panteistica, quasi due ore di ottima musica per appassionati, dal gusto melodico raffinato, con l’abito buono, con i guanti. E pensare che i generi espressi durante la serata hanno fatto le fusa a periferie dal sound grezzo come rock blues e folk americano da west-e-polvere. Tuttavia, gli otto componenti sul palco hanno saputo accerchiare l’ascoltatore con un tornado di sinfonie intessute con perizia navigata (alcuni membri della band hanno mostrato fieramente i capelli bianchi), tanto da rendere impossibile qualsiasi tentativo di borghese immobilità sul posto.
Il lungo parterre (almeno 4000 paganti) ha beneficiato del tour guidato dal timoniere britannico di lunga data Knopfler (64 anni il 12 di Agosto), attraverso un excursus tra i ben otto album da solista dell’ex leader dei Dire Straits, maestro riconosciuto a livello mondiale, dello strumento dalle sei corde. Chi si aspettava una retrospettiva malinconica dei successi degli Straits è rimasto altrettanto deluso, ma instancabilmente non ci si può esimere dal ripetere: è stata una serata di musica con la M maiuscola, senza ghettizzazioni.IMG_7999
I presenti hanno visto gli otto membri della band avvicendarsi tra strumenti classici come violoncello, contrabbasso, violino, clarinetto o pianoforte e più moderni basso, tastiera, chitarra (o mandolino) o fisarmonica, con le due uniche costanti la chitarra elettrica di Knopfler e la batteria del fido Ian Thomas. E con questo popò di tutto-tondo orchestrale, il viaggio ha acquisito i contorni dell’all inclusive. Dopo l’inizio in tromba con il classico What it Is (esecuzione magistrale) la crociera ha preso il largo verso ambienti apparentemente ostici, ma che con l’andare dei pezzi sarebbero divenuti sempre più familiari. La platea ha gustato quindi fino in fondo il folk-blues ispirato di brani come Corned Beef City e Cleaning my Gun, per poi caracollare dolcemente verso la title track dell’ultimo album solista dell’’Uomo tranquillo del Rock’, Privateering, brano-manifesto di questo folk americano con innesti marpioni di campionari celtici.
Le sterzate più significative sono arrivate dalla straordinaria Father and Son, introdotta da un preludio di cornamusa da pelle d’oca e dalla immancabile Romeo and Juliet, brano più apprezzato fra i tre proposti dall’arsenale Dire Straits. L’introduzione dei membri della band (tra cui il co-produttore Guy Fletcher alla tastiera ndr) è avvenuta come intro alla panegirica Postcards from Paraguay, vertice alto della varietà di stili proposti dalla carovana Knopfleriana: se in precedenza abbiamo annoverato folk, celtica, blues, qui ci addentriamo nel profondo Sudamerica, per uscirne piacevolmente rinfrancati.
Impossibile non citare i virtuosismi al violino di Marbletown, degna improvvisazione di spartiti, in fin dei conti, piuttosto ripetitivi. Sul finire delle quasi due ore, i pezzi mancanti del trittico Dire Straits, Telegraph Road e So Far Away sono riusciti ad ammaliare anche i meno convinti (pochi a dirla tutta): la prima per l’arrangiamento dal minutaggio esteso e la carica trascinante (non una novità della serata), l’altra per il testo minimalista che si fà cantare neanche fossimo ad una partita di pallone.
IMG_7938Dopo l’encore Piper to the End, è il momento di tirare lo somme su queste quindici bomboniere regalateci dal maestro Mark. Spesso è motivo di discussione tra gli addetti ai lavori, quanto in ambiente musicale sia ‘salutare’ guardare indietro ad epoche significative per il rock, quasi a voler bere dal Sacro Graal della conoscenza e crogiolarsi sino alla catarsi mistica. In questo caso, senza inserirsi incisivamente nel dibattito appena espresso, basti pensare che Knopfler propone, nel ventunesimo secolo, spettacoli capaci di esprimere al massimo sia il concetto di gruppo (inteso come orchestra), sia quello di lavoro solista (il processo compositivo gli appartiene in toto). Ed anche se molti spettatori al ritorno dal concerto, avranno ascoltato il classico Sultans of Swing a volume altissimo, le orecchie più preparate avranno invece ringraziato Knopfler per l’ennesima lezione impartita.


Commenti

Daniele Dominici

Click here to connect!