25 Ottobre 2011. Gli Alter Bridge salgono sul palco dell’Atlantico di Roma per onorare una delle tappe per il tour di promozione di AB III, (terza fatica della band) uscito poche settimane prima. Durante l’esecuzione della traccia numero sedici, la single track più famosa del gruppo, Open Your Eyes, il vocalist Myles Kennedy, pezzo pregiato in rampa di lancio a livello mondiale, anticipa erroneamente una delle strofe della canzone, lasciando spaesate le prime file e divertito qualche fan più attento verso il fondo. Il ragazzo proveniente da Boston, Massachusetts, non si scompone e spiazza tutti esibendo un sorriso disteso, sentenziando un laconico ‘C***o, ho proprio cannato la strofa!’ e ricominciando là da dove aveva iniziato pochi istanti prima.. Un episodio come tanti, un errore come tanti, una data come tante, utili tuttavia per comprendere il background dell’alternative rock band Alter Bridge, in uscita il primo di Ottobre con la quarta incisione ufficiale, Fortress.
Se riuscire ad arrivare a determinati scalini della carriera musicale è già compito più che arduo, giungervi con un’umiltà tale da non sembrare VIP patinati a solo dieci anni dall’esordio, è davvero merce rara. Eppure le radici degli Alter Bridge sono tutt’altro che proletarie.
Paradossalmente l’unico ‘sconosciuto’ al debutto era lo stesso Myles Kennedy, ragazzotto dalle belle speranze ‘sbocciato’ musicalmente alla tenera età di 37 anni: non esattamente il prototipo dell’American Dream. Gli altri membri, Scott Philips alla batteria, Brian Marshall al basso e soprattutto il vate Mark Tremonti, erano già celeberrimi nel panorama discografico a stelle e strisce per aver formato nei tardi anni novanta, una delle più influenti band post-grunge del pianeta, i Creed del cantante Scott Stapp. Con alterni successi avevano inaugurato una tradizione fortissima, soprattutto nella terra dei cowboys, che ancora vent’anni dopo risuona forte e chiara, ricollegandosi evidentemente a basi composite più che valide.
Un giusto mix di linee grunge, indurite a tratti da un riffaggio heavy metal d’autore e, nel caso specifico, qualche spunto pseudo-religioso a fare da contorno e a scatenare critiche dai puristi – oltranzisti – hater di turno. Come certificazione, scusate se è poco, tre dischi di platino consecutivi, dopo i soli anni 2000.
Eppure eredi di cotanta tradizione, Kennedy e soci hanno puntato forte sulla nuova avventura, rapendo fan e critica sin dal seminale One Day Remains (2004 ndr) grazie ad idee lucide ed una formula rivisitata nei dettagli, volta a richiamare l’attenzione di una fan-base assopita e distratta, quella dei sostenitori dell’hard rock. Dopo l’apice creativo degli anni ottanta e la distorsione concettuale dei nineties, infatti, il genere ‘duro’ per eccellenza, era stato accuratamente smembrato, spacchettato e ricomposto secondo standard preconcetti, assumendo la stessa valenza di un reality in prima serata su MTV.
Ma è con il masterpiece Blackbird che i ragazzi provenienti dalla Florida costruiscono la propria fortuna, se non a livelli di vendite, di poetica, impostando un nuovo livello qualitativo che comincerà a dare i propri frutti in maniera esponenziale soltanto mezza decade più tardi. Atmosfere cupe, testi esistenziali, doti tecniche indiscutibili incastonate in un song writing mai banale. È prima dell’uscita del terzo album, AB III, però, che gli Alter Bridge vengono presi sotto l’ala protettiva della Roadrunner Records, label ingombrante ma dalla scorza durissima, che lancia i rocker graduati, nell’iperspazio delle classifiche europee e mondiali, con aumento evidente di pubblico, consensi e, crediamo, soddisfazioni personali. Uno dei frutti maturi di questo periodo è il DVD nella cornice del Wembley Stadium di Londra, con lo spazio adibito al concerto, completo in ogni ordine di posto.
Non mancano nemmeno le esperienze soliste, con progetti che attraggono stavolta anche l’attenzione dei media più miopi: difficile distrarsi quando ad eleggere Myles Kennedy cantante principe del proprio progetto c’è un’icona pop come Slash (ne seguiranno due dischi che riporteranno in tour dopo diversi anni l’ex chitarrista di Guns ‘N Roses e Velvet Revolver ndr). Ma la prova della maturità arriva anche per Mark Tremonti, che sigla nel 2012 il proprio All I Was, ennesima dimostrazione tangibile dell’immensa verve creativa del virtuoso di Detroit, cervello, a conti fatti, di ben tre gruppi.
E’ storia recente, dunque, la produzione di questo Fortress, diretto da Michael “Elvis” Baskette, alla regia già per AB III e Blackbird. Impossibile non tagliare l’attesa con il coltello quando si parla di una band con un background storico tanto variegato e così particolarmente vincente. Sia che si parli di Creed, di Alter Bridge o dei singoli componenti del gruppo, il pedigree rimane estremamente pregiato. Fortress arriva infatti sugli scaffali a pochi mesi di distanza dall’ultima tappa del tour mondiale di Slash con Myles Kennedy, che ha raccolto unità di consensi in ogni dove; poco tempo prima si era ‘riposato’ anche Mark Tremonti, dopo aver stupito i palcoscenici mondiali portando in tour un’incisione al di là di ogni più rosea previsione, ricca di grinta, cavalcate thrash metal (sì, avete capito bene) ed un ceppo compositivo capace di istrioneggiarsi camaleonticamente mantenendo intatta la poetica.
Le interviste che hanno preceduto l’uscita del disco raccontavano di un cambio di rotta importante nella direzione artistica della band, decisa nell’abbandonare la linearità di AB III (ovviamente lungi dallo snaturarsi) immergendosi in contesti più duri ed ammiccanti all’heavy metal. Impossibile non citare a tal proposito ancora la mano di Tremonti, unico pilastro del song writing a paventare origini, si passi il termine, Metallichiane.
Il risultato è a tratti spiazzante, con l’opener Cry of Achilles pronta a ricalcare le orme della prima traccia del precedente AB III, con un inizio in crescendo introdotto da un arpeggio di chitarra classica. L’esplosione seguente ha il compito di provare a coinvolgere l’ascoltatore sin dai primi minuti (lo mettiamo ai primissimi posti nella classifica degli intro meglio costruiti), salvo ricondurlo a linee più morbide dopo una trentina di secondi. La voce di Myles si adatta coraggiosamente ai sali-scendi emotivi del pezzo, narrando in maniera decisamente epica il racconto speranzoso del Pianto di Achille. I testi non sono variati di profondità rispetto agli album che precedono Fortress, facilitando l’apprendimento di brani concentrati in maniera pressoché ossessiva sulla parte strumentale. Il ritornello incarna perfettamente questo spirito sognante che aleggerà per buona parte del lavoro, con la linea melodica a tratti melensa che rischia piuttosto spesso di annullare l’unitarietà del corpo tecnico nulla sua interezza. Il solo finale è ovviamente ben inserito. Nulla da eccepire.
Il secondo brano è anche il primo singolo estratto dall’album, Addicted to Pain, uno dei pezzi più lineari dell’intero album. Lo schema strofa+ritornello è arricchito da una velocità spiazzante per i canoni di Tremonti & soci, incoraggiante sintomo del già citato cambio di rotta. Lascia a bocca aperta soprattutto la batteria di Scott Philips, che abbandona per una volta il drumming fondato fideisticamente sul paradiddle e si lancia su una più socratica ma decisa doppia cassa, garantendo al nucleo narrativo del brano più solidità. Menzione d’onore per le doti immarcescibili di Tremonti, trascinatore del brano con un riffing stoner ormai marchio di fabbrica dell’artista e con il solo (collocato sempre verso la fine del brano) tra i più belli dell’intera composizione: un ripasso di storia del rock, epico e fiero. Insomma: semplice ma coinvolgente.
Se Cry of Achilles ha spiazzato, Bleed it Dry sconvolge. La terza traccia (su cui a detta degli stessi protagonisti, la band ha puntato parecchio) è introdotta da un doppio pedale aggressivo e da volumi hardcore che ricordano band ben più ‘violente’, vedi i Five Finger Death Punch. La calma è ristabilita da un ritornello cantilenato molto d’impatto, mentre il riffing rimane serrato, dissonante, fuso tra le ritmiche di AB III e la cupa atmosfera di Blackbird. Nel complesso speriamo le dichiarazioni alla vigilia fossero semplice pre-tattica promozionale, poichè non è facile immaginare Bleed It Dry nella top ten delle migliori canzoni degli Alter Bridge, nonostante non sfiguri nemmeno per un secondo.
Arriviamo a Lover, pezzo quasi cantautoriale, sentito, caldo, in pieno stile Kennedyano. Tocchiamo uno dei punti più alti delle performance di Myles all’interno del disco. E’ infatti soltanto un lontano ricordo il cantato svogliato e poco ‘sentito’ di AB III; Kennedy tira fuori le unghie e riporta il proprio ruolo in primissimo piano, elevandosi nella parte finale del brano con un’interpretazione sopra le righe. Il resto della band è in grado di modellare un tuttotondo penetrante, sempre fedele alle proprie origini; in questo caso riecheggia nuovamente Blackbird ma, nonostante i volumi altissimi aggiungano più pathos, alla lunga viene meno l’ incisività alla base. Alcuni addetti ai lavori hanno notato similarità con la poetica dei Myfield Four, gruppo precedente di Myles Kennedy. Non è da escludere qualche congiunzione, anche se si rischia di scadere in interpretazioni forzate e semplicistiche: sarebbe come gridare ‘Creed!’ ad ogni riff di Tremonti, non ne scaturirebbe di certo un’analisi più oggettiva!
Anche se siamo quasi al giro di boia, la stanchezza fatica a farsi sentire, segno di un evidente lavoro di studio sui tempi medi dei brani e sulla collocazione degli stessi.
In The Uninvited torna il riffing veloce e ricamato di Tremonti che fa da contraltare ad un cantato forse troppo monotono, nonostante parlare male del pezzo appare impossibile ed anzi paradossalmente finirà per essere uno dei capisaldi del disco. Eccone spiegati i motivi. Innanzitutto un andamento progressivo fatto di stop, ripartenze e ritornelli orecchiabili, solo lontanamente assimilabili ad altri lavori della band. Quindi originalità. In secundis una base ritmica invidiabile che riusciamo ad apprezzare appieno solamente allo scoccare di The Uninvited; Scott Philips e Brian Marshall mai come in questo album, infatti, dimostrano di aver raccolto tanta esperienza assieme da conoscersi praticamente a memoria. Il risultato è invidiabile ed è possibile apprezzarlo in Fortress.
Peace Is Broken si apre invece con un basso sincopato che spiana velocemente la strada al riff chitarristico portante della strofa, come sempre potente, ben mixato e senza sbavature. Il ritornello estremamente melodico e monocorde riporta con la mente ancora una volta ad AB III, con la differenza che questa volta i quattro musicisti statunitensi comunicano una voglia prepotente di cambiare registro ad un pezzo altrimenti monotono. Il bridge convince a pieno, la batteria diventa ben più che un tappeto ed invade il brano nell’intermezzo centrale, per poi lasciare spazio a sua maestà, il solo di Tremonti, che intesse un ricamo prezioso sulla stessa melodia del riff principale del pezzo. Potenza, coerenza e voglia di stupire.
Forse un piccolo passo indietro lo si compie con Calm The Fire. E pensare che l’incedere iniziale aveva aperto lo spazio a tutt’altre premesse, con un cantato accattivante, anche se nuovamente melenso. Il brano sincretizza purtroppo la maggior parte degli esperimenti infruttuosi della band, dai ritornelli troppo ammiccanti per non essere tacciati come commerciali, alle liriche son troppo scontate; sino ad arrivare al riffing per la prima volta banale e ripetitivo. In sintesi, un brano che ricalca fedelmente manifesti di altre band del roster – Roadrunner, come gli Halestorm, guarda caso spalla degli Alter Bridge nell’imminente tour (che toccherà anche l’Italia, a Roma e Milano ndr).
Un down come questo è però tutt’altro che un cattivo presagio, se a seguire c’è Waters Rising, una tra le tracce più convincenti. Alla voce troviamo Tremonti, non più sorprendentemente, dopo l’esperienza solista già accennata e la canzone di chiusura di AB III (Words Darker than their Wings ndr), con Kennedy a fare da seconda voce. Se prima Calm The Fire rappresentava un serio esempio degli elementi negativi del song writing, Waters Rising riporta alla mente perché la band ha bruciato le tappe della scalata all’ industria musicale. In primis la perfetta alchimia tra Tremonti e Kennedy sia alla voce, sia alle chitarre. Se nel primo One Day Remains il cantante in pectore addirittura non imbracciava nemmeno lo strumento, ora i due coltivano una sana rivalità lavorativa che permette ad entrambi di liberare doti tecniche davvero sorprendenti (soprattutto Myles si è rivelato come interprete d’eccezione dello strumento a sette corde) e di duettare a suon di solos all’interno dei pezzi. Ma Waters Rising sintetizza anche l’evoluzione artistica dei ragazzi dopo AB III, reo di aver sfornato pezzi coerenti ma mai all’altezza dell’angolare Blackbird. In questo caso ci troviamo dinnanzi, sì a poetiche già conosciute e a ritornelli sin troppo orecchiabili, ma i riff, gli stop, le riprese o le linee vocali sono studiati al millimetro, per non stancare ed allo stesso tempo marcare il territorio. Anche il solo lascia senza fiato, virtuoso e mai impertinente.
Delle ultime quattro tracce ci sentiamo di salvarne la metà: se Cry Me a River e All Ends Well peccano abbastanza visibilmente di creatività (la prima) e di incisività (la seconda), Farther Than the Sun e la title track Fortress rinforzano il trono costruito negli anni dalla band e su cui gli Alter Bridge siedono stabilmente. Farther Than The Sun rimarrà nelle nostre memorie come brano perfetto nella struttura e negli intenti, con un ritornello marpione che affianca fortemente capisaldi come Rise Today e la già citata Open Your Eyes; meno inno, più pugno diretto a certe corde emotive. Il paragone fatto da alcuni con i Muse, per il bridge, fa davvero sorridere: il thrash metal, questo sconosciuto, verrebbe da dire.
Fortress invece cerca di ripercorrere la strada scavata dalla song-capolavoro Blackbird, comunicando la medesima serietà stilistica, presentandosi come un quadro dipinto in maniera sublime, che riflette in maniera impietosa la tematica di un mondo dal futuro imperscrutabile. Rispetto a Blackbird troviamo pennellate più pesanti, quasi thrash (di nuovo), che indicano come colpevole, senza ombra d’errore, il genio di Tremonti. I solos a questo punto non sono più motivo di discussione, tanto è il materiale con cui specchiarsi e mirarsi decine e decine di volte.
Questa quarta fatica discografica degli Alter Bridge non può che lasciare soddisfatti. E tra le tante sfumature positive forse quella davvero incontestabile è l’estrema semplicità con la quale questi quattro ragazzi riescono a sfornare progetti di volta in volta carichi di un’identità diversa, ma sempre coerenti con le proprie intenzioni poetiche. In questo caso, l’aggiunta di riff al vetriolo non lascia mai spaesati ed al massimo si rende colpevole del reato di induzione all’ headbanging. Il cammino è dunque segnato: più in alto, in direzione ostinata e (neanche poi tanto) contraria. Anche se è lecito domandarsi: ancora più in alto?
Tracklist:
1. Cry of Achilles
2. Addicted to Pain
3. Bleed It Dry
4. Lover
5.The Uninvited
6. Peace is Broken
7. Calm the Fire
8. Waters Rising
9. Farther than the Sun
10. Cry a River
11. All Ends Well
12. Fortress