Senza scomodare lâevoluzionismo sociale con cui Herbert Spencer teorizzò buona parte della scalata al progresso antropologico alla fine del diciannovesimo secolo, tutti i fenomeni che partono da un piccolo punto disperso e riescono a guadagnarsi lâattenzione di vaste masse nel giro di una decade, dovrebbero essere oggetto di studio. Purtroppo nellâambito discografico moderno questo spirito romantico è stato spazzato via da mere logiche di mercato che probabilmente Spencer stesso non aveva considerato appieno (molti dopo di lui spesero valanghe dâinchiostro sullâargomento), con lâalibi comprensibile che il capitalismo con la C maiuscola preso in esame (proprio di questo si tratta!), sarebbe esploso verosimilmente soltanto decenni a venire. Eppure un paragone iperbolico come questo è in qualche modo tessuto addosso alla scalata verticale compiuta nel lasso di tempo di una decade da parte degli ormai lanciatissimi Alter Bridge. Band alternative rock/metal dalle belle speranze creatasi agli albori degli anni duemila nella terra del âsognoâ lavorativo per eccellenza, gli Stati Uniti, gli Alterbridge sono saliti agli onori delle cronache soprattutto per lâunicitĂ del prodotto proposto, in perfetta sintonia con il concetto Spenceriano di concorrenza sociale: niente di totalmente nuovo, ma abbastanza diverso da distaccarsi dai predecessori in maniera efficace e convincente.
Dopo soli quattro album allâattivo (lâultimo, Fortress, uscito a fine Settembre, è il motivo per cui rivediamo gli AB nel nostro paese dopo una pausa di due anni) e qualche disco dâoro in bacheca, la band guidata alla voce dal virtuoso Myles Kennedy si riaffaccia nel Belpaese  per rafforzare la propria posizione e tentare addirittura un sor – passo di automobilistica memoria: abbandonare lo storico Alcatraz di Milano come sede delle proprie esibizioni e spostarsi nel ben piĂš capiente Forum di Assago. Per la prima delle due date italiana, Roma, la scelta è stata invece diversa. Effettivamente non sono molti i dubbi che assalgono gli spettatori sui perchè della conferma dellâAtlantico come location: alternative valide, impianti con una capienza âdi mezzoâ tra le decine di migliaia e le poche centinaia, in quel della Capitale, non ve ne sono.
Le beghe storiche della struttura sono purtroppo rimaste ancorate al parquet: unâacustica a dir poco âcaciaronaâ che limita lâudito allâesecuzione di massimo 10 pezzi ed un servizio dâordine ai limiti dellâassenteismo spinto. Chi scrive ha avuto, tra lâaltro, la fortuna di godersi lâassistenza VIP, con foto e autografi da parte della band (bisognerebbe scrivere un capitolo a parte sullâargomento, la spinta emozionale mi farebbe regredire di almeno dieci anni) visione del soundcheck (il momento piĂš esclusivo in assoluto) e accesso anticipato al parterre. Nonostante lâeuforia, quindi, per le ore precedenti al concerto, lo spettacolo stesso ha peccato di tutti i limiti appena citati, alcuni ad onor del vero, scevri dalla responsabilitĂ degli organizzatori: che il sottoscritto dopo tre pezzi della band di supporto si sia visto scavalcare da orde di forsennati che non conoscono il significato di parole come educazione, rispetto, decoro ed il cui unico scopo è guadagnare 3 cm di spazio per scambiarli con lâincolumitĂ di centinaia di persone, è onestamente inaccettabile sotto piĂš punti di vista.
Ma dopo aver brevemente accennato alle note dolenti, passiamo ai numerosi aspetti positivi protagonisti della serata. Gli Halestorm della grintosa Elizabeth âLzzyâ Hale alla voce (con un look simile ad una rider dâaltri tempi), sono stati scelti come spalla per il tour sull’onda del successo internazionale recente e si sono rivelati un antipasto piĂš che gradito. Il pubblico inizialmente decimato dellâAtlantico (lâentrata ai cancelli pare abbia avuto una dilazione biblica) ha dimostrato buona conoscenza dei pezzi proposti, figlia soprattutto di una scelta marpiona da parte della band, che ha ripropoposto sul palco cavalli di battaglia riconoscibili dai piĂš. A fare da âponteâ tra ‘classici’ come Love Bites, Freak Like Me, Mz Hyde e la ballata Hereâs to Us, è stato il solo alla batteria del funambolico Arejay Hale, fratello dellâaccattivante Lzzy (proveniente da Red Lion, Pennsylvania ndr). Stesso spettacolo, dâaltronde, proposto due anni fa da F.Young, batterista dei Black Stone Cherry (spalla degli AB nel 2011 ndr) : evidentemente in America, in ambito alternative metal, vanno per la maggiore interpreti in grado di saltare sul posto, aggredire la batteria e âpistare come ossessiâ. Ed il pubblico che può fare se non godersi lo spettacolo?! Temperatura altissima (in tutti i sensi possibili) per lâentrata degli AB, ad onor del vero forse lâaccoglienza piĂš calorosa mai vista nella Capitale per uno show dei Blackbirders. Un Atlantico vicino allâimplosione viene fatto deflagrare dal nuovo singolo Addicted to Pain, con la sua carica minimale punzecchiata dalla voce di Myles Kennedy che coraggiosamente prova a farsi sotto, con buona pace di un settaggio vocale vicino allo zero. Dopo numerosi gesti da parte del sempre disponibile e sorridente vocalist, la situazione pare limarsi con White Knuckles, altra gradita sorpresa per le scalette di questo tour, promossa di almeno tre quattro posizioni rispetto gli anni scorsi , per poter garantire un inizio a dir poco d’impatto. Il volume delle pelli è altissimo e la doppia cassa non fa eccezione. Rimane il dubbio che il tutto sia casuale: il rischio che i restanti strumenti restino soffocati sotto il tappeto sonoro di Scott Philips, è piĂš che tangibile. Stesso discorso per il basso di Brian Marshall. Per due tracce ancora rimaniamo in territorio Blackbird (Come To Life e Before Tomorrow Comes) con il pubblico, accorato e di vecchia data, giĂ rapito senza condizionale. Non si potrĂ certo definire una platea eterogenea (le prime file sono quasi tutti under 20), ma poco importa, la cornice rimane impressionante: pochissimi spazi liberi, cori ad ogni canzone, boati provenienti da ogni ordine di posto per gli assoli dellâirrefrenabile Mark Tremonti. E proprio il chitarrista con origini nord italiane, a trascinare il pubblico con il semplice utilizzo della mimica corporea, scatenandosi durante i bridge piĂš heavy nemmeno fosse alla prima esibizione in carriera. Alla fine della giostra rimarrĂ lui il vero elemento imprescindibile del live, incatenato, per il resto, su standard tutto sommato normali, sempre che ci si soffermi sul mero aspetto dinamico-estetico.
Dopo il breve intermezzo dedicato ad AB III con lâemotiva Ghosts of Days Gone By, song che giĂ nel 2011 si era fatta apprezzare per un lungo acuto finale di Myles, in grado di spazzare via qualsiasi forma di superficiale scetticismo sulla resa live del vocalist di Boston, la band a stelle e strisce dĂ vita ad una serie di brani di rara soliditĂ . La tripletta Metalingus – Blackbird – Broken Wings , posta volutamente a metĂ dellâesibizione, lancia a tutti i presenti un segnale inequivocabile: le radici discografiche della band non solo sono un bacino inesauribile da cui attingere di volta in volta rinnovata vitalitĂ , ma soprattutto il parere positivo dei fan su di esse, non è lasciato inascoltato. Ognuna di esse rappresenta una pietra angolare imprescindibile per comprendere il manifesto artistico degli Alter Bridge e lâesecuzione live è solo il rafforzativo di questo concetto. Metalingus è adrenalina pura, Broken Wings trascende gli umani sentimenti, Blackbird è lâestasi di Santo Myles. Nel mezzo non passa inosservata la nuova Waters Rising, traccia nazional popolare chiesta a gran voce anche dai pochi fan che hanno assistito al soundcheck. Inutile dire che non si rimane mai delusi: alla voce câè Tremonti, che dopo lâesperienza solista (due date in Italia l’anno passato ndr) è tranquillamente in grado di reggere il palco con presenza granitica. Il brano è disegnato sul chitarrista e lâassolo conclusivo è un accento favoloso: la resa live del ragazzone di Detroit, acustica a parte, rimane spaventosa. Arriviamo al duetto cucinato e servito dalla Roadrunner Records (etichetta condivisa da AB e Halestorm ndr) in occasione di Watch Over You, con Lzzy e Myles interpreti fedeli di una delle ballad piĂš sentite dal pubblico femminile. Piccola nota di costume: per lâoccasione la Hale ha abbandonato gli abiti da metallara, per vestire i bianchi panni della dama dâoccasione. Tutto fa brodo, insomma! Prima delle due tracce encore finali, si possono apprezzare due dei brani migliori dallâultimo uscito Fortress, Farther Than The Sun e Lover, che si la lasciano gustare soprattutto per la carica trascinante (la prima) e lâatmosfera introspettiva tendente al malinconico (Lover), fotografie perfette dellâeccellente connubio tra resa live e registrazioni in studio. Isolation viene presa come ennesimo invito a lasciarsi trascinare dal muro di suono prodotto da questi quattro ragazzi che si divertono a fare hard rock, mentre lâinno Open Your Eyes lascia spazio ad emozioni tutto sommato contrastanti: la gioa immensa di rivivere ogni volta la tappa seminale della scalata Spenceriana firmata AB (OYE è stato il primo singolo del gruppo ndr) e la malinconia di chi sa che lâ’onda sonora incontrollabile’ sta per esaurirsi anche stavolta. E se Calm the Fire è accolta con un boato di approvazione ( è una delle novitĂ piĂš fresche dellâalbum appena uscito) e accontenta tutti, Rise Today rappresenta invece il canto del cigno: brano simbolo per la fine degli show,  racchiude i fan presenti tra le proprie braccia nerborute, per riconsegnar loro quel senso dâappartenenza che poche altre band sembrano donare in questo scenario musicale. Il cerchio si chiude, il dado è tratto. ChissĂ se sarĂ lâultima volta degli Alter Bridge allâAtlantico di Roma. Sicuramente durante le tre date vissute sinora nel locale, la band non ha mai tradito le attese ed ha anzi raccolto lâentusiasmo dei fan, lâha fatto proprio e lâha restituito sotto forma di show quasi sempre memorabili. Anche stavolta, disagi organizzativi a parte, non si può che trarre un bilancio positivo. Sebbene la scaletta lasciasse fuori per forza di cose svariati pezzi di cui i fan avrebbero voluto godere, dâaltro canto gli AB hanno mantenuto un equilibrio raro nella scelta dei pezzi, non tralasciando come sempre lâesecuzione, ai limiti del maniacale. Tutto lascia intendere che anche per Roma sia arrivato il momento del salto. Dopotutto, la band statunitense ha definitivamente rodato il proprio motore e si è concessa il lusso di registrare lâultimo DVD (come ciliegina sulla torta del tour precedente ndr) nella cornice sobria della Wembley Arena (scusate se è poco), bissando il proprio successo con un album che si attesta su standard ancora una volta eccelsi. Spencer avrebbe concluso: âIl progresso, quindi, non è un accidente, ma una necessitĂ â. Se il sottoscritto avesse avuto lâopportunitĂ di intervistare la band avrebbe chiesto loro, senza ombra di dubbio, di un noto sociologo
SETLIST AB:
Addicted to Pain
White KnucklesÂ
Come to LifeÂ
Before Tomorrow ComesÂ
Cry of AchillesÂ
Ghost of Days Gone By
Ties That Bind
Waters Rising
Broken Wings
Metalingus
Blackbird
Watch Over You
(with Elizabeth “Lzzy” Hale) (Myles Acoustic Solo)
Farther Than the Sun
Lover
Isolation
Open Your Eyes
Encore:
Calm the Fire
Rise Today
SETLIST HALESTORM:
Love Bites (So Do I)
Mz. Hyde
It’s Not You
Freak Like Me
Rock Show
Break In / Familiar Taste of Poison
Drum Solo
Dissident Aggressor
(Judas Priest cover)
I Get Off
Here’s to Us
I Miss the Misery
 UN RINGRAZIAMENTO SPECIALE A LUIGI ORRU PER LE FOTO!