Cold Cave @ Traffic Live Club (testo di Simone NoizeWave Vinci, foto di repertorio)

Foto tratta da: https://www.facebook.com/COLDCAVE/ di: Xavier Marquis

Foto tratta da: https://www.facebook.com/COLDCAVE/
(c) Xavier Marquis

Cold Cave è il mulatto del Synth Pop. E’ quella giusta via di mezzo tra la musica nera e sperimentale di John Foxx, Il grigio modernista del primo Gary Numan e la musica bianca e ballereccia dei New Order.
Conoscerlo e scoprire che suona a Roma qualche settimana dopo è una fortuna che capita poche volte nella vita. Essendo cresciuto a pane e Post-Punk, non poteva non piacermi. Trent’anni dopo la nascita del movimento e del Synth Pop, Cold Cave è l’unico che porta con sé quel DNA elettronico che ha fatto ballare i club londinesi e l’Haçienda di Manchester, prima che fosse Madchester.

La musica di Wesley Eisold e dei suoi collaboratori prende quello che c’è di bello in tutti i vari filoni dell’elettronica fine settanta/primi ottanta, con influenze che vanno dal Punk al Goth, e li alchimizza per tirare fuori una musica che dopo anni è riuscita a farmi ballare volontariamente ad un suo concerto.
Al Traffic di Roma c’erano molte più persone di quante me ne aspettassi: gruppetti di persone di ogni genere, qualche faccia conosciuta in qualche club New Wave, oltre a qualche ventenne imbecille con la fissa per il ventennio che era capitato lì per il dj set post concerto e alla fine si era trovato in prima fila a fare saluti romani. Cold Cave si è presentato con Amy Lee, iniziando il concerto con i pezzi di Love Comes Close (2009), colpi di mortaio sulla folla come The Laurels of Erotomania , per poi passare ad altri colpi di avvertimento tratti da Cherish the Light Years (2011) come Villains of the Moon, aggiungendo i pezzi del prossimo Sunflowers (anche se il titolo non è ancora certo) come God Made the World. Arriva il momento delle bombe atomiche, delle bombe intelligenti, di quelle che fanno saltare la gente. Lo spettacolo visivo è suggestivo: luci molto basse, lui in felpa nera, proiezioni videoartistiche alle spalle. Arrivano in un solo colpo: Underworld USA, Icons of Summer, Confetti, People are Poison, Heaven Was Full e The Great Pan in Dead, che fa urlare tutti disperati e mistici, mentre Wesley Eisold si contorce tra pavimento e folla uscendo dalla sua compostezza. Esco anche io dalla mia compostezza, con la fortuna di stare all’angolo del locale e ballare alla chitichella, senza attirare attenzione.

Foto tratta da: https://www.facebook.com/COLDCAVE/

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Tratteniamo un po’ tutti il fiato, perchè Cold Cave spara le sue cartucce senza riserva, tutte insieme e per mezz’ora è un delirio di synth, drum machine e della sua voce profonda. Poi finisce The Great Pan is Dead e lui se ne va. Perchè? Ma è finito? Tutti increduli. Farà un bis? Il tecnico sale sul palco per smontare. Ma davvero? Parte la musica di sottofondo. Sì, è finito.

Cazzo.

Quando è così improvvisa la fine di un concerto, senza bis, senza niente, ci resti come se ti staccassero la spina mentre sei dentro Matrix.

Cold Cave ha dato dimostrazione di saperci fare, per quanto la formazione “a due” dia una sensazione di karaoke a tutto quanto, visto che la gran parte della musica usciva da un pc e non da uno strumento vero e proprio, ma se ci stai su a pensare, non ti godi lo spettacolo. La voce è la sua, la musica pure, e quello che conta è vederlo contorcersi magrissimo e spigoloso, arrivando fino al pubblico per poi esitare nel toccarlo. Perchè, alla fine, se canti nascosto dentro a un cappuccio e per venti minuti e te ne stai da solo, non è che poi fai il vago e ti metti a toccare tutti. Ci vuole un momento di decompressione. Infatti se ne stava lì a cinque centimetri dagli invasati vestiti di nero che allungavano le mani. Solo alla fine si è concesso.

Un concerto sorprendente. Un artista sorprendente.

Per motivi non dipendenti dalle volontà della redazione, l’articolo esce utilizzando foto di repertorio. 


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Simone Vinci

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