Zen Circus. Un nome che non ha bisogno di presentazioni. Una band che ormai da anni calca i palchi della musica indipendente italiana raccogliendo intorno a sé un pubblico sempre più ampio e trasversale. Li ho incontrati alla fine della prima parte del tour che ha portato Canzoni contro la Natura in giro per l’Italia, seminando sold out e delirio un po’ ovunque. Ecco cosa ci siamo detti.
1) Avete detto che per fare Canzoni contro la Natura vi siete chiesti “come andare avanti tornando indietro?”. Questo si sente perché c’è un suono più crudo, quel sapore lo-fi che si era un po’ perso nei due dischi precedenti. Cosa c’è invece di nuovo rispetto ai vecchi album?
U: per un certo aspetto è in continuità con i nostri dischi precedenti, perché se li guardi da lontano gli album hanno tutti un tratto d’unione. Essendo stato elaborato in presa diretta è più rispondente alla realtà, più somigliante ai live. In questo senso è in discontinuità con i lavori precedenti. Se poi si vanno a vedere altre cose, tipo gli arrangiamenti, è in perfetta continuità col nostro stilema, ci sono quei due-tre ingredienti che abbiamo sempre usato. Non siamo sperimentatori, non è nelle nostre corde. Poi la tematica questa volta è più – parola grossa per noi – filosofica.
K: secondo me la questione principale, per tutte le band che hanno una discografia piuttosto estesa, è fare un passo indietro e riuscire a vedere tutti i dischi messi insieme, perché alla fine del un cammino di un gruppo raramente si tendono a fare colpi di testa allucinanti o dischi alla John Zorn. Specialmente se negli ultimi anni i membri sono rimasti sempre gli stessi e se si fa rock, o pop, o come lo vuoi chiamare quello che facciamo noi. Quindi anche la dialettica usata e i suoni sono tutti ingredienti che si ritrovano anche nei dischi passati. Che poi è la cosa di cui andiamo più fieri: non buttiamo via nulla senza però fare dischi fotocopia. Per ora, poi magari chissà.
2) Il vostro pubblico è molto variegato, trasversale, va dall’adulto a teenager. Secondo voi cosa vedono i vostri fan negli Zen Circus? Quel è il motivo del vostro successo?
A: tre scappati di casa che si sono montati la testa (ride). No, secondo me – anche se dirlo lo rende meno vero – è la genuinità. You see what you get, you get what you see, cioè prendi quello che c’è. Gli Zen sono così e la cosa bella degli Zen è quella lì.
K: anche perché un processo artificioso di costruzione sia dei pezzi che dell’immagine ci verrebbe male.
A: che vuoi che vedano? Tre persone che non hanno mai avuto neanche un turnista o qualcuno in più che gli desse una mano. Siamo noi tre e facciamo più meno la stessa roba da tanti anni cercando di portare avanti un certo tipo di discorso, è ovvio che poi uno si affezioni.
U: dove c’è Zen Circus c’è casa.
K: Perchè la Scavolini è così vincente? perché la gente vede nella Scavolini un brand di cui fidarsi. Gli Zen Circus sono la stessa cosa.
3) Un giorno qualcuno mi ha detto che la musica è lo specchio di molte cose. Voi che cosa vedete in quel riflesso?
A: un genio chiunque l’abbia detto!
K: mi sa che forse era Bukowski o il direttore della Banca Fideuram, uno dei due.
A: no, era il direttore di Libero. E’ lo specchio di tutto, non è che ci sia qualcosa di preciso.
K: secondo me risulta anche molto difficile parlarne perché è un processo così naturale che finisce per riempire ogni anfratto della tua vita senza neanche che te ne renda conto.
U: io la musica ce l’ho in testa tutto il giorno.
A: a me ad esempio ha migliorato la vita, ma me l’ha anche rovinata. E’ talmente imponente che non è solo lo specchio di qualcosa, è la mia vita, nel bene e nel male. E’ uno stile di vita. Non voglio fare il fighetto, ma fondamentalmente è così. C’è chi la musica la prende come lo specchio di qualcos’altro, mentre gli Zen sono lo specchio della musica. Della nostra musica, eh, no della musica in generale nel mondo. Quello che facciamo rappresenta quello che siamo, quindi non è uno specchio, siamo noi i media di una cosa che vogliamo fare.
K: come per tantissimi altri gruppi, diventa totalizzante.
4) Cos’è che vi ha fatto avvicinare alla musica e quando è che avete deciso che sarebbe diventata la vostra vita?
K: per me la fine della carriera sportiva. Fino a 13 anni giocavo a pallone e la mia famiglia pensava che quello sarebbe stato il mio destino. Invece poi mi ruppi le scatole di fare 5 allenamenti a settimana e finsi un infortunio. Poi mi regalarono una chitarra e conobbi i Nirvana a 13 anni e mezzo, è stata una congiunzione astrale.
A: io personalmente Live at Wembley dei Queen. Vidi loro e dissi “che cazzo vado a lavorare, ma siete scemi?”. Avevo 9-10 anni, dissi “questo è il lavoro perfetto, cos’altro devi fare nella vita?”. Il primo calcio nel sedere è stato quello, il secondo Nevermind dei Nirvana, mi ha disintegrato l’esistenza.
U: Io vidi un gruppo che faceva il soundcheck in un centro sociale.
A: quello anche a me dopo.
U: non avevo mai visto come funzionava questa cosa, invece vidi loro che scaricavano le cose, montavano, provavano uno strumento alla volta, capii come funzionava il concerto. Non ne avevo mai avuto la minima idea. In quel momento lì mi venne voglia di farlo anche io.
A: io vedevo Brian May e volevo essere lui.
U: a me garbava molto la musica fin da bambino, però l’idea di fare musica mi venne dopo.
K: quello è il passo successivo. Apprezzare la musica quando sei bambino o ragazzino è una cosa, prendere la decisione di farlo e farlo bene è un altro paio di maniche.
U: io andavo ai vedere i concerti anche col mio babbo, mi portò a vedere la Blues Brothers Band, Gianna Nannini, però non capivo come facessero a fare questa cosa. Vedendolo poi smontato dissi “allora si può fare. se metti questo più questo più questo fai questo”. Ero bimbetto, però mi garbò.
A: io grazie ai NoMeansNo al Macchia Nera soprii che la batteria si poteva microfonare, per esempio. Fu una cosa incredibile, per me il microfono era solo per la voce. Essere cresciuto davanti ad un posto del genere mi ha aiutato.
5) Avete un rapporto molto diretto con i vostri fan, siete molto attivi sui social network, state spesso in mezzo a loro. Vi percepiscono quasi come vecchi amici.
U: soprattutto vecchi (ridono).
A: comunque l’idea degli Zen è proprio quella lì
E’ quasi come se vi conoscessero attraverso le vostre canzoni. Come vivete questo rapporto e quanto è importante per voi?
A: se non c’era suonavamo lo stesso (ridono). Quando poi è arrivato, se erano due o mille li abbiamo trattati sempre nella stessa maniera. Ovvio che non puoi spendere tutta una serata a ubriacarti con i tuoi fan come potevi fare prima, sennò muori, sei anche più vecchio. Però cerchiamo sempre di passarci del tempo cercando di eliminare quel piedistallo che c’è, l’idea della rockstar. Lo hanno fatto e lo fanno tante band, noi cerchiamo di non farlo, perché quel tipo di distacco si crea già a prescindere visto che ti conoscono tramite i media.
U: bisogna cercare anche di demistificare. Se uno ti trova sul treno ti dice “non ci posso credere”. Ma come non ci puoi credere? Vedrai! Per loro è strano che i musicisti prendano il treno o vadano a bere il caffè nei bar.
6) Internet ha cambiato radicalmente il mondo della musica, c’è anche chi sostiene che l’abbia uccisa. Ultimamente c’è anche la tendenza a rendere disponibile l’album in streaming già prima della sua uscita, cosa che voi non avete fatto. Cosa pensate di questo cambiamento?
K: è inutile negare che ci sia stata un’evoluzione, o una devoluzione – questo sarà da analizzare nei prossimi anni – nella fruizione della musica. E’ inutile far finta che non ci siano stati questi ultimi 10 anni inchiodandosi in una posizione immobilista in cui non si accetta che nella musica purtroppo non si vede più l’amore di un tempo per il supporto. La gente si è riversata verso il digitale. Alcune persone sono sempre sulla vecchia posizione “la musica per me significa sudore, fatica, tempo e denaro e non voglio cederla gratuitamente”. E’ un po’ una lotta contro i mulini a vento, perché il sistema sta andando avanti in questa maniera e per quanto uno possa provare ad arginarlo c’è poco da fare.
U: è un processo che da un lato ha tolto e da un lato ha dato, perché adesso un gruppo agli esordi può fare ascoltare le sue cose con più facilità. Quando noi abbiamo iniziato dovevi prendere materialmente il demo e spedirlo, era molto macchinoso e costoso.
K: io ricordo quando ho fatto il primo disco, era la fine del ’97 e Internet c’era ma io probabilmente non sapevo nemmeno che esistesse. Andai alla Wide, che era un negozio di dischi e un’etichetta, e mi feci dare la lista degli indirizzi delle etichette indipendenti italiane. Prendevi il disco, lo spedivi, spesso non arrivava nessuna risposta oppure arrivava dopo tre settimane, un mese. Però questo portava a una visione più realistica sulla situazione musicale. Ora è qualcosa di inafferrabile, la questione delle etichette e dell’intero mondo musicale è molto dispersiva ed è spesso ricca di vicoli ciechi. La gente pensa di avere mille opportunità tramite Facebook, Internet, Spotify, You Tube, ma poi non è detto che sia così e molto spesso prendi delle badilate nel muso. Questo sistema democratico chiamato Internet – che poi non è vero per niente – dà l’opportunità di buttare il proprio disco in rete dove tutti possono sentirlo. Peccato che solo in Italia lo fanno 1500 gruppi ogni mese, e se dietro non ci sono un percorso e la costruzione di un lavoro serio, va a finire che hai 3 visualizzazioni. Molti ragazzini pensano che sia più importante farsi una bella pagina di Facebook piuttosto che passare le ore in sala prove a suonare. Vabbè poi io sono un vecchio di merda, quindi ho la visione un po’ reazionaria sulla questione.
7) Qualche giorno fa siete stati ospiti a Repubblica e una cosa che saltava subito all’occhio era la giovane età dei fan presenti, molti dei quali avevano meno di 18 anni. Voi come le vede queste nuove generazioni?
U: quelle che vengono a vedere noi bene (ridono).
K: secondo me è impossibile, da sempre, dare un volto ad una generazione, perché nella stessa fascia sia sociale che di credo politico ci becchi dentro serietà, gente che vive in modo approssimativo, c’è tutto. Non si può dire che questa sia una generazione figa, non perché non lo sia, ma perché non puoi identificare con un aggettivo una generazione. Non si poteva farlo neanche con la nostra.
U: per fortuna noi abbiamo questo punto di osservazione abbastanza privilegiato. Ha detto bene lui, quando avevo quell’età lì non c’era neanche CasaPound, non era neanche immaginabile.
K: non si può prendere una livella, anche se alla fine la società tende a posizionare e isolare la gente, dare grandi aggettivi. A me è sempre risultato molto difficile, perché credo che sia antitetica al concetto stesso di uomo. Cioè unoa puo’ in un giorno voler ammazzare una persona e salvare la vita ad una persona ammazzandosi. Io lo vedo un po’ come una cazzata il disegno generazionale. Poi è un’opinione personalissima.
8) Appino, in Dalì dici “morto l’11 novembre, nato il 23 dicembre”. Il 23 dicembre è la tua data di nascita. Come mai l’hai inserita nel testo? Ha un significato particolare?
A: me la sono gufata (ride). No, in realtà a me piace sempre mettere delle date se ci hai fatto caso. In postumia c’è la data di febbraio, in Franco c’è una data di gennaio, in Dalì c’è il mio compleanno che è quando è nato Dalì. Dalì non esiste, nonostante molti ci abbiano detto il contrario. Però la realtà dei fatti è che fondamentalmente è la storia di uno che magari nella società ci è anche entrato, ma per scelta o per forza di cose ne è uscito. Ne abbiamo conosciuti tanti di personaggi così nella nostra vita e ci sembrava giusto farne un pezzo. C’è sempre un pezzo tipo Franco nei nostri dischi.
U: è un collage di figure marginali.
K: personaggi che molto spesso trovavamo al Macchia Nera quando eravamo ragazzini.