Steven Wilson live @Auditorium Conciliazione, Roma (foto di Stefano D’Offizi – Recensione di Daniele Dominici)

Uno come Steven Wilson se lo incontri per strada non lo eviti, semplicemente lo ignori. Ti passa accanto con in un giacchetto felpato talmente anonimo che non colpirebbe l’immaginario nemmeno di una tribù del deserto del Gobi.

Eppure Steven Wilson è un continuo elogio della genialità, un talento enorme, brillante, capace di traghettare un intero genere musicale attraverso i grigissimi anni novanti e portarlo nel nuovo millennio ancora più forte, ancora più fruibile.

Il concerto di Wilson all’Auditorium Conciliazione per la seconda parte del Hand.Cannot.Erase Tour, è stato soltanto un’affermazione, una sottolineatura, la normale prosecuzione di un progetto tematico che definire completo non è riduttivo, è un insulto.

Se andate ad un concerto di Wilson, artista già noto alle platee per la folgorante esperienza nei Porcupine Tree, non aspettatevi uno show anonimo quanto il vestiario di chi lo propone (a parte l’abitudine di presentarsi scalzo sul palco).

Già la scelta della location faceva presagire un lavoro raffinato di ricerca sonora, tanto sapiente quanto rischioso: sebbene un Auditorium sia lo scenario per eccellenza in grado di scatenare la fantasia degli appassionati più raffinati e romantici, allo stesso tempo anche per uno spettatore meno audiofilo è più semplice carpire gli scivoloni di chi suona.

Ma per un autore come Wilson, perfezionista, nerd del suono, ingegnere esclusivo di tutte le parti strumentali del disco (sia mai!), questi particolari non prefigurano un ostacolo, bensì un abito da indossare dopo un’attenta misurazione centimetro alla mano. C’è da immaginarselo mentre con una lente d’ingrandimento passava a setaccio ogni teatro di Roma, finché dopo sopralluoghi estenuanti non si è imbattuto nell’unico spazio chiuso dove la rifrazione del suono è la medesima che anelava nella sua testa.

Magia del suono a parte, una volta seduti si ha la sensazione di tornare ad assaporare la vera essenza della musica dal vivo: un ‘entrata senza fronzoli (boato del pubblico a parte, a cui evidentemente questo nerd inglese piace da impazzire), scenografia essenziale, ma tanta attenzione alla parte strumentistica, con tutti gli interpreti sugli scudi. A tal proposito: mancano all’appello batterista e chitarrista dell’ultimo disco (Marco Minnemann e Guthrie Govan) impegnati nel proseguo del loro progetto solista, sostituiti in maniera apprezzabile da Craig Blundell (batteria) e Dave Kilminster (chitarra), che non riescono tuttavia a riprodurre il tocco caratteristico dei colleghi, lasciando qua e là qualche sfumatura di freddezza non riscontrabile sulle tracce originali.

D’altronde di questo si parla: particolari, peli nell’uovo, pippe mentali da intenditori.

Perché per il resto, l’impatto è una primavera di ottime sensazioni, un replicarsi maniacale del disco con contorno di potenza live. E per un attimo sembra di essere tornati indietro ai Settanta. Incredibile ma vero, anche il pubblico è estremamente eterogeneo, dai nostalgici degli anni d’oro del prog, ai giovanissimi infatuati dai ritornelli catchy di alcuni pezzi di Wilson, alle dame in pelliccia che nemmeno alla Scala di Milano per la prima del Barbiere di Siviglia. Proprio da qui nasce una delle riflessioni catartiche: Wilson ha conquistato davvero tutti, espandendo la propria poetica impregnata di ‘sadness’ (a sua detta l’Italia ha ricevuto meglio di altri paesi questo tipo di manifesto programmatico) e trasformando il sogno di un ragazzino depresso, in un cordone di anime pronte a far tesoro delle atmosfere decadenti di cui i dischi del genio di Hemel Hempstead, traboccano.

La Setlist non ha tradito le attese, con l’autore pronto a stravolgere la scaletta piuttosto che regalare un concerto simile nei tratti a quello dello scorso Febbraio (al Teatro Sistina ndr). C’è ovviamente molto Hand. Cannot. Erase con le splendide 3 Years Older e la title track a fargli da suggestivo seguito, la incontenibile Ancestral e la commovente Happy Returns. Il tutto accompagnato da alcuni filmati proiettati alle spalle dei musicisti, con protagonista una giovane ragazza e la sua vita (la stessa del concept dell’album); un elogio scontato all’esistenza urbana, figlia del nostro secolo.

Incastonate in questa spina dorsale ci sono i vecchi capolavori dei Porcupine Tree, scelti con dovizia per non scontentare nessuno, ma soprattutto per non perdere l’integrità intellettuale che si respira in ogni dove quando si parla di Steven Wilson. E andando a tirare le somme dopo l’uscita di questo ennesimo lavoro (il quarto da solista), non resta che riconoscere all’ormai quarantacinquenne l’onore delle armi. Nessuno come lui al giorno d’oggi può permettersi di portare sulle spalle la bandiera del prog moderno e allo stesso reggere il confronto con la scena metal più agguerrita, per non parlare dell’eredità morale delle tematiche grunge.

Ma tornando al live cosa lascia un’esibizione del genere a chi ha avuto la fortuna di usufruirne? La certezza che la bella époque della musica contemporanea non sia terminata trent’anni fa, ma anzi, alcuni pionieri hanno trovato una chiave di lettura per immergersi nel passato con il fine di rinfrancarsi nel presente. Quella di WIlson consiste nella semplicità delle idee, senza la prosopopea di chi ha fatto bene i compiti a casa (a tal proposito alcuni sketch con il pubblico sono stati una ciliegina di innegabile gusto) e che al massimo richiede rispetto per un prodotto complesso e non adatto ai più.

Chi ha potuto godere dello spettacolo della Conciliazione, è stato travolto da una pangea emotiva al limite fra esibizione rock (le piccole poltroncine hanno contenuto con difficoltà i tentativi di pogo), musica per immagini, exposè di tecnica dello strumento e studio applicato della propagazione del suono. Tutto questo lavoro, è frutto della mente di un solo individuo, tanto umile da chiedere al pubblico di chiamarlo semplicemente Steven (il cognome gli ricorda la maestra quando lo chiamava per l’appello a scuola).

Poche ombre, tantissime luci, le stesse che si a fine concerto hanno rivelato un pubblico in standing ovation e la speranza nel cuore di rivedere presto uno dei talenti musicali più che alti che ha sfornato il nostro secolo. Ad Maiora Steven!

 


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Stefano D'Offizi

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