Gli Dwarves salgono sul palco tardi. Salgono quando i concerti a cui assisto generalmente sono finiti ormai da ore. Ti piallano le orecchie per 45 minuti come fanno da più di 30 anni e se ne vanno. Escono di scena come fanno sempre e come hanno sempre fatto. Gli Dwarves scendono dal palco di fronte, facendosi largo tra il pubblico e non di nascosto, dietro le quinte come divinità meschine. Gli Dwarves sono un patrimonio. Un patrimonio che andrebbe preservato a livello culturale, ma che nel rispetto della loro natura effimera, riottosa e non rispettosa di nulla se non di se stessa è destinato a perdersi. Gli Dwarves mandavano tutti affanculo molto prima che il culo fosse inventato. È cosi. Chi oggi crede di essere trasgressivo (a livello musicale) deve buona parte del suo background formativo a questa e ad altre (poche) band che hanno fatto della loro attitudine alle vita, più che alla musica, un marchio di fabbrica. E non è casuale che un samurai delle quattro corde come Oliveri condivida le sorti di questo pezzo di storia socio/musicale ormai da più di 25 anni.
Ieri sera all’EVOL club, uno dei pochi baluardi ancora in piedi in una capitale che è sempre più una zona di guerra per quel tipo di musica che mal si adatta alle coronarie fiacche, oltre agli Dwarves si sono alternati sul palco anche i The Svetlanas (che soprattutto all’estero hanno trovato il giusto riconoscimento di ciò che sono; una cazzutissima punk rock band) e Nick Oliveri in versione Death Electric. Ora, ho assistito ad almeno 4 concerti dei Queens of the Stone Age negli ultimi 5 anni e se la memoria non mi inganna, ogni volta la band ha riproposto “Six Shooter” (dall’album Songs for the Deaf per quelli di voi che si approcciano oggi alla musica ascoltando Carl Brave x Franco 126). Ogni volta mi sono chiesto perché lo facessero. Ho viaggiato in lungo ed in largo la penisola per 4 volte per sentire la stessa canzone (che sul disco è un minuto abbondante di pugni sulla faccia, 15 lottatori di sumo che volano per aria, un enorme pene in orbita intorno alla terra) ridotta e gettata lì come un preservativo usato. Ieri sera, dietro casa l’ho sentita suonata dal vivo. Nel senso che il brano ha letteralmente preso vita. Mi sono sentito come Anton Ego quando assaggia la Ratatouille verso la fine del celeberrimo film premio oscar… Non posso rattristarmi per chi non c’era, ma sono felicissimo per chi era presente in sala ed ha condiviso con me un momento….un momento.
L’EVOL club come quei pochi altri posti superstiti che propongono musica dal vivo, sono i soli luoghi in cui gli occhi di chi suona e di chi è suonato possono incontrarsi a metà strada “tra palco e realtà”. E vi assicuro che Olga dei “The Svetlanas” e Blag con uno sguardo possono bucarvi il cranio per poter urlarci dentro tutto quello che hanno in corpo. È uno scambio di passione e fluidi corporei e credo che sia per vivere sensazioni come queste che le serate dei “pochi ma buoni” valgono comunque la pena di essere vissute. Questo ti danno i concerti nei piccoli locali. Ti danno l’incredibile occasione di vedere da vicino, toccare con mano la vita di questi moderni menestrelli. Più impegnati a tener viva una piccola fiamma e portarla in giro per il mondo che a macinare soldi facendo i clown per soddisfare la pancia mai sazia del “pop”.