Greta Van Fleet – Anthem of the Peaceful Army (Republic, 2018) di Alessandro Guglielmelli

Quando i Greta Van Fleet sono usciti alla ribalta nel 2017 con il singolo Highway Tune, bisogna ammettere che, da sfegatato fan del Dirigibile, la mia espressione facciale era abbastanza curiosa, con un sopracciglio alzato da un lato ed un sorriso sornione dall’altro. Del resto stiamo parlando di quattro talentuosi e giovanissimi ragazzi del Michigan, carichi di entusiasmo, pronti a misurarsi con i mostri sacri della musica rock, ma accusati di una a dir poco sufficiente originalità (già il fatto di chiamare la band come una signora del loro paese natale, Frankenmuth, che di nome fa appunto Gretna Van…

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Quando i Greta Van Fleet sono usciti alla ribalta nel 2017 con il singolo Highway Tune, bisogna ammettere che, da sfegatato fan del Dirigibile, la mia espressione facciale era abbastanza curiosa, con un sopracciglio alzato da un lato ed un sorriso sornione dall’altro. Del resto stiamo parlando di quattro talentuosi e giovanissimi ragazzi del Michigan, carichi di entusiasmo, pronti a misurarsi con i mostri sacri della musica rock, ma accusati di una a dir poco sufficiente originalità (già il fatto di chiamare la band come una signora del loro paese natale, Frankenmuth, che di nome fa appunto Gretna Van Fleet – con una “N” in più – dà alcuni indizi al riguardo).

Con l’uscita del loro primo album Anthem of the Peaceful Army, la mia espressione non è cambiata, tutt’altro.

Partiamo dal sopracciglio alzato: non si può dire che i Greta Van Fleet si ispirino in qualche modo ai Led Zeppelin. Li trasudano letteralmente. Ogni canzone di quest’album è una via di mezzo tra un omaggio ed un tentativo (riuscitissimo) di richiamare i loro riff, i loro acuti, i loro arrangiamenti, persino i loro vocalizzi (giusto per citarne un paio, nella canzone The Cold Wind è possibile sentire qua e là “uh-yeah” e “ma-ma-ma”, così simili all’originale che sarebbe stato interessante vedere la faccia di Robert Plant).

Bisogna anche dire che se è praticamente immediato riallacciarsi alla band di Page&Plant, ci sono qua e là riferimenti ad altri gruppi di assoluto rilievo nel panorama musicale degli anni ‘60 e ‘70: ad esempio, l’intro di Watching Over ricorda moltissimo l’intro di The House Of The Rising Sun, capolavoro targato The Animals.

Non stupisce quindi che nel web per mesi si sia scatenata una delle tante, troppe discussioni: simil-cover band realizzata a tavolino dalle etichette discografiche o semplice tentativo di emergere nel panorama musicale rock partendo da uno dei gruppi più amati della storia? Nel primo caso, quello dei Greta Van Fleet non è e non sarà l’ultimo esempio: guardando ai soli Led Zeppelin, potremmo citare i Kingdom Come o i più recenti Rival Sons, mentre, spostandosi qualche migliaia di km più in là, come non citare gli Airbourne, spudoratamente simili agli AC/DCDel resto, non è solo nella musica che sempre più spesso viene riportato il passato nel presente con operazioni di questo genere (o con reunion, aggiungerei): non è forse vero che, nel cinema, sempre più spesso assistiamo a reboot di film o telefilm di successo che hanno caratterizzato gli anni ‘80? Evidentemente quest’operazione alla fine risulta essere particolarmente remunerativa, con buona pace dello show business e della critica.

Tuttavia, e qui mi riferisco al mio sorriso sornione di cui sopra, stiamo sottovalutando un aspetto, forse il più importante per una recensione, aspetto che emerge subito al primo ascolto di questo album, e cioè che i fratelli Joshua, Jacob e Samuel Kiszka (cui si aggiunge Daniel Wenger) sono bravi. No, anzi, sono dannatamente bravi. E sono nati tra il 1996 ed il 1999, il che significa che hanno vent’anni o poco meno. Sinceramente, è sorprendente aspettarsi un tale livello artistico per questi ragazzi così giovani.

Basta partire dalla prima traccia, Age Of Man, una ballad di 6 minuti che vuole essere un invito per l’uomo a ricercare la saggezza in un periodo così incerto e ad assumersi le proprie responsabilità come essere umano, anche in relazione al suo rapporto con la natura. Questa canzone, caratterizzata dall’utilizzo di organo e sintetizzatori, esalta da subito le doti canore di Joshua, che si mette alla prova con passaggi difficili, raggiungendo vette altissime. Le successive The Cold Wind e When The Curtain Falls (primo singolo estratto da quest’album) sono sicuramente le tracce più coinvolgenti, più energiche, più marcatamente rock (anche se non manca una parte blues) e posso solo immaginare con piacere il loro impatto in un contesto live. Difficile non trovare riferimenti ai Led Zeppelin in queste due tracce, che sono anzi pregne di ammiccamenti, tra stacchi di batteria alla Bonham, riff “à la Page” e vocalizzi di plantiana memoria.

Con Watching Over ci si rilassa un attimo, tornando ad atmosfere miste di prog e di psichedelia, un manifesto “flower power” in cui vengono esaltate le capacità tecniche del chitarrista Jacob. Lover, leaver ci fa nuovamente tornare tra le nuvole sul Dirigibile con citazioni da Whole Lotta Love, mentre You’re The One richiama ancora più esplicitamente un altro grande classico come Your Time Is Gonna Come. The New Day, altra ballad dal sapore folk-bucolico, e Mountain Of The Sun, con quel riff iniziale che non si toglie dalla testa e con una piacevolissima impostazione blues guidano l’ascoltatore verso la fine, rappresentata dalla particolarissima Brave New World, ispirata dal celebre romanzo di Aldous Huxley, in cui spicca ancora una volta un bell’assolo di Jacob (che per una volta ricorda Jimi Hendrix e non Jimmy Page). A chiudere il tutto Anthem, una canzone di commiato e di ringraziamento, esattamente come Thank You in Led Zeppelin I.

Riassumendo, è difficile giudicare questo disco senza allargare lo sguardo alla band che lo interpreta, perciò quest’etichetta del “bravi-ma-assomigliano-troppo-ai-Led-Zeppelin” rischia di rimanere marchiata a fuoco sulla pelle dei Greta Van Fleet, cui spetta la decisione di rimanere in questa specie di sottobosco musicale (come altri loro illustri colleghi hanno già deciso di fare) o di voler osare, spingendosi oltre etichette e somiglianze, proponendo qualcosa di veramente originale, qualcosa che sia targato GVF tout-court. Sicuramente talento e stile non mancano, se è vero che i loro show (inclusi quelli previsti per il 2019 in Italia a Milano e Bologna), registrano spesso il tutto esaurito e che le loro canzoni, trasmesse in radio, hanno restituito al rock l’attenzione che merita.

Tracklist:

  1. Age Of Man
  2. The Cold Wind
  3. When The Curtain Falls
  4. Watching Over
  5. Lover, Leaver (Taker, Believer)
  6. You’re The One
  7. The New Day
  8. Mountain Of The Sun
  9. Brave New World
  10. Anthem


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Alessandro Guglielmelli

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