Opeth – In Cauda Venenum (Park Studios, 2019) di Paolo Guidone

L’aspettativa degli amanti del genere progressive per il nuovo disco degli svedesi Opeth era molto alta sin dal loro ultimo grande successo, Pale Communion (2014) e poi da Sorceress (2016), e l’attesa è stata in gran parte ripagata dall’ultimo album In Caude Venenum che ha riservato ai fan importanti sorprese e forse una determinante conferma. Da alcuni anni, infatti, gli Opeth si sono cimentati in un percorso artistico finalizzato ad emanciparsi del genere death metal - di cui sono stati negli anni ’90 tra i maggiori protagonisti - ed in generale anche dal mondo progressive, che è stato il loro…

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L’aspettativa degli amanti del genere progressive per il nuovo disco degli svedesi Opeth era molto alta sin dal loro ultimo grande successo, Pale Communion (2014) e poi da Sorceress (2016), e l’attesa è stata in gran parte ripagata dall’ultimo album In Caude Venenum che ha riservato ai fan importanti sorprese e forse una determinante conferma.

Da alcuni anni, infatti, gli Opeth si sono cimentati in un percorso artistico finalizzato ad emanciparsi del genere death metal – di cui sono stati negli anni ’90 tra i maggiori protagonisti – ed in generale anche dal mondo progressive, che è stato il loro successivo noto marchio di fabbrica.

I loro recenti esperimenti per reinventarsi all’interno del genere progressive metal hanno avuto alterne fortune, creando spesso più confusione che consenso tra i propri fan, fino al suddetto Pale Communion che parve finalmente convincere il pubblico.

Il leader della band Mikael Åkerfeldt, ha però imposto al gruppo di continuare tale percorso esplorativo, generando non pochi malumori tra i suoi supporters che hanno infatti accolto assai tiepidamente gli ultimi due lavori degli Opeth, facendo temere l’esaurimento della sua vena artistica.

I testi dei brani sono stati registrati originalmente solo in lingua svedese ma, per ovvie ragioni commerciali, sono state poi cantate anche in inglese ottenendo, però, la vendita di entrambe le versioni dell’album: swedish version ed english version.

Tornare indietro su un ormai ben rodato genere progressive puro, oppure spingersi ancor di più verso nuove sonorità con il rischio di aggravare una già latente crisi di identità artistica?

Questa era la domanda che tutti si ponevano per il nuovo album In Caude Veneneum e la risposta offerta dagli Opeth è stata sorprendente.

Åkerfeldt e compagni hanno infatti conclamato la genesi di un loro nuovo stile, ormai maturo dopo i precedenti tentativi.

Le sue caratteristiche sono un definitivo abbandono dei capisaldi esecutivi del death metal come il cantato growl ed il cosiddetto muro di suono che doveva letteralmente travolgere l’ascoltatore, preferendo adesso l’inserimento frequente di strumentistica acustica nonché di tastiere e piano Hammond. Altro elemento distintivo è l’influenza sempre maggiore del Jazz Fusion nei suoni degli Opeth. Le atmosfere di In Cauda Venenum riecheggiano la cultura ancestrale ed esoterica tipica dei paesi nordici, permeate da una costante introspezione che spesso trascende in melanconia: un stile gotico moderno si direbbe, per quanto tale categorizzazione appaia piuttosto vaga e semplicistica, ma il senso di questo album è questo.

I brani son suonati con notevole capacità tecnica elemento che, ad avviso di chi scrive, è la croce e delizia di questo lavoro: senza dubbio infatti gli Opeth riescono con il loro talento a suonare partiture davvero complesse e ad intrecciare tra loro gli strumenti in maniera quasi piratesca, con risultati davvero affascinanti per l’ascoltatore, il tutto accompagnato da un cantato impeccabile del loro leader che cura voce e partiture come mai prima. L’aspetto negativo di tutto ciò è che a volte il loro virtuosismo li porti a scadere in mero tecnicismo, dove la foga di “dimostrare” superi quella di “comunicare”.

Il brano The Garroter ne è un esempio lampante: l’intro è quello di una di una chitarra classica spagnola, con i suoi arpeggi tipici del grande Andres Segovia, ma poi arriva, improvviso, un piano jazz fusion che oblia del tutto il precedente intro, e fa da tappeto alla voce melodica di Åkerfeldt, accompagnato da una batteria suonata con le spazzole e addirittura da un oboe, mentre sullo sfondo suona una tastiera elettrica.

Anche nel brano Charlatan i cambi di ritmo improvvisi, il sincopato della batteria spesso al limite del controtempo ed in contrappunto ad un cantato epico e pulito, sembrano voler sottolineare più le loro abilità tecniche che un vero messaggio artistico. 

In definitiva l’ultima opera degli Opeth non è male, anzi è dall’ascolto tutto sommato piacevole, ma risulta un po’ troppo psichedelica e a tratti confusa, quasi forzata, un album che forse si è spinto un po’ troppo oltre le originali intenzioni del quartetto svedese.

Se siamo di fronte alla conclamata crisi d’identità di gruppo che ha fatto la storia del progressive metal, oppure se si tratti della genesi di una loro interessante avanguardia artistica che stupirà tutti, è ancora presto per dirlo: attendiamo con ansia il loro prossimo album.

Tracklist:

  1. Garden Of Earthly Delights (Intro)
  2. Dignity
  3. Heart In Hand
  4. Next Of Kin
  5. Lovelorn Crime
  6. Charlatan
  7. Universal Truth
  8. The Garroter
  9. Continuum
  10. All Things Will Pass


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Paolo Guidone

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