Intervistare JEROME REUTER dei ROME non è facile. Il primo album è del 2006 e ne sono succeduti ben 16 (oltre a live session ed EP) con l’ultimo appena uscito, a fine novembre.
Ma Jerome è restio sui social, compone canzoni con frasi talora ermetiche e le interviste in passato sono state poche e sicuramente asciutte. Non aiuta iniziare l’intervista se la band, che arriva dal Lussemburgo, si sta sbizzarrendo con un soundcheck di chitarre e batterie ben decise.
L’occasione dell’incontro è preziosa, tanto più se presso ZIGGY CLUB, location che rappresenta una delle scintille più incandescenti della Torino notturna ed underground, ospitale per chi ha orecchie pronte ad ascoltare suoni alternativi per buona musica indipendente.
Ettore Castellani: Questo è il diciassettesimo album, Jerome. “Hegenomikon, un viaggio alla fine della luce”. Vieni dal cuore profondo dell’Europa con un nome che ricorda sia una capitale storica sia il tuo nome personale. Quali sono gli ingredienti per far uscire così tanti album?
Jerome Reuter: Non faccio nient’altro. Solo una canzone al mese [ride] … e, sai, ci sono 12 mesi in un anno. Quindi è abbastanza semplice, davvero.
D: La fonte e gli ingredienti di tanta energia creativa. Dove li trovi?
R: La maggior parte nei libri e in quello che vedo intorno a me. Le idee non mancano mai. Il mondo è un luogo che porta ispirazione.
D: Libri, come Celine?
R: Sì. Voglio dire, in Lussemburgo abbiamo tre, quattro lingue ufficiali, quindi abbiamo molta letteratura a nostra disposizione. Può essere francese o tedesco, nel mio caso soprattutto, e ovviamente ci sono molte possibili fonti. Recentemente ho usato un po’ di Yeats e alcuni dei poeti irlandesi. Ho trascorso di recente qualche tempo in Irlanda, ma ho anche vissuto a lungo in Germania, quindi conosco molto bene anche quella lingua. È sempre sembrato abbastanza facile, sapere alcune cose per iniziare a scavare, sai? Quando leggi una cosa, porta ad un’altra e non si ferma mai. Leggi un autore e poi vuoi scoprire cosa ha fatto veramente lì, da dove l’ha preso e poi trovi qualcos’altro, è proprio questo. Quindi il grande lavoro non si ferma mai davvero.
D: E guardando indietro, hai fatto così tanti passi, anche la tua musica è cambiata anche se gli aspetti intrinseci, forse, sono gli stessi. Ma quali sono i tuoi sviluppi, come artista?
R: Non ne vedo nessuno [ride]. Per me il nucleo è ancora molto simile. E proprio perché invecchio, forse alcune cose migliorano, non lo so. Inoltre, lavoro con persone diverse, quindi ci sono sicuramente nuove impronte sonore e musicali. Ad esempio, per questo nuovo album abbiamo usato sintetizzatori analogici, principalmente perché il mio amico Tom Gatti, con cui lavoro sulla musica, è un grande fan dei sintetizzatori analogici e ora di recente entrambi abbiamo iniziato a scavare su di questo, più intensamente. Ma è sempre dallo stesso tipo di prospettiva, prendo le cose dalla medesima stanza, ma non esco davvero dalla casa.
D: Capisco, ma, lasciamelo dire, anche il genere musicale è definito a volte neofolk, a volte darkwave, altre volte post-industrial o chanson-noir. Scelte diverse…
R: È sempre la stessa cosa, davvero. Intendo dire, hai sfumature diverse, ma è sempre lo stesso nero [ride]. Più impari a proposito di storia della musica, più vedi che quello che faccio è della seconda metà del XX secolo. E tutto ciò che accade lì, è lo stesso. Viene dal blues e dal rock. E nel mio caso si tinge anche delle varie tradizioni di chanson e di cantautori d’Europa.
Darkwave o post industrial? Non ho mai capito bene dove inizia l’uno e dove finisce l’altro. Non è come la musica metal, dove sai che ci saranno chitarre distorte e tamburi tonanti e sarà generalmente rumoroso. Ma con altri sottogeneri più oscuri è un po’ più complicato trovare caratteristiche che siano vere per tutte le varie band underground… E, davvero, chi se ne frega?
D: “Hegenomikon, un viaggio alla fine della luce”. A me ricorda Celine, ma forse anche Gibbon, Caduta e declino [dell’impero d’occidente]. Come hai deciso questo titolo?
R: Non so mai come rispondere a queste domande. Odio entrare nello spiegare l’ovvio e demistificare. Voglio dire, il titolo è il titolo e ci sono molte ragioni per cui lo scelgo. E o è ovvio per qualcuno il motivo o non lo è e se non lo è, allora quella persona sentirà il bisogno di esplorarlo da solo. E questo è estremamente prezioso e non voglio privarne nessuno. Non sono io che cerco di essere timido o ambiguo. Penso davvero che quello che ho da dire sia nella musica. Alcune cose potrebbero aver bisogno di chiarimenti, ma questa non è una di quelle [ride]. Ad ogni modo, per me è abbastanza difficile parlarne, perché inizio sempre con un tema di base che è più un sentimento, un atteggiamento e poi cerco di trovare qualcosa che supporti quel sentimento. Quindi c’è come una visione o un colore e poi prendi tutto ciò che ti capita e lo metti insieme e vedi se si incastrerà assieme. Questi temi qui, di alte montagne, di altezze in generale, uccelli rapaci, il verticale… il senso aristocratico. Impero. E fa dannatamente freddo. Ecco perché il ghiaccio è sulla copertina [del nuovo album]. E naturalmente puoi entrare in canzoni come “Icarus Rex” e l’immagine che sono lì. Ma questo è il punto. Non c’è nulla che io possa dire che renderà la canzone meglio di quello che è.
D: Lasciami dire che la “fine della luce” è la fine dell’orizzonte o un nuovo modo di vivere o cos’altro?
R: Esatto, è ambiguo in questo modo, immagino.
Q: Cosa ne pensi oggi delle tue canzoni più recenti? Qual è la canzone bandiera che meglio rappresenta il messaggio dei Rome?
R: Non sono un postino. [ride]. Non sono un messaggero. Quello che faccio, riflette ciò che vedo intorno a me: così se c’è il caos attorno, allora cerco ordine nella musica. Quindi questo disco ha molti temi sull’ordine, gli imperi e la struttura, mentre tutto quello che è intorno a noi è … solo caos. Non è un riflesso, non è uno specchio, è più come il mio film personale nella mia testa. Canto anche a proposito di quello di cui ho bisogno. Faccio la musica che io stesso bramo di ascoltare.
D: Ci sono tre canzoni con una linea rossa che collega i puntini, “Who only Europe know”, “The West know best” e “Born in EU”.
R: Quelle canzoni sono state scritte tre anni fa.
D: Sembrava un richiamo all’Europa e ai suoi valori, ma anche uno scontro tra Europa e USA. È corretta o meno questa interpretazione?
R: Sì. [Silenzio]. Sono cresciuto negli anni ’80, sotto il dominio americano per così dire. E penso che queste canzoni riguardino l’emancipazione, la crescita, in una certa misura. Ma ora è completamente diverso, a causa dell’invasione della Russia. Il ruolo che gli Stati Uniti svolgono improvvisamente è cambiato e nonostante tutto il male che hanno fatto, non è il momento di litigare tra di noi. Staremmo peggio sotto il dominio russo. È così semplice.
D: Nel processo creativo cosa viene prima: musica, testo o sentimento?
R: Non c’è una regola, a volte trovo prima i testi, o almeno parte di essi; a volte la musica, a volte entrambi, ma di solito inizio con le parole.
D: In quest’ultimo lavoro hai iniziato a usare l’elettronica. Cosa ne pensi di questa nuova interazione.
R: Beh, non ci penso. Un pittore non pensa quando dipinge. Sta solo dipingendo. Qualunque riflessione su di esso sia fatta, è fatta dallo spettatore. Ma certamente questo cambiamento nel suono è avvenuto perché devi sempre cercare nuovi suoni, è come quando conosci quel pittore e tu sai che ha sempre usato solo il rosso e, a un certo punto, deve usare del blu, un nuovo colore, un nuovo giocattolo. Sono solo un uomo e ho una canzone da cantare, quindi provo a riscriverla, in modo diverso ogni volta.
D: Nelle tue canzoni i soggetti sono solitamente plurali “loro”, “noi”. Difficile trovarti ad esprimerti come me, me stesso o io. D’altra parte Rome viene da Jerome. Pensi che ci siano canzoni in cui la tua vita personale o la tua biografia siano più importanti?
R: Generalmente lavoro con cose che non riguardano la mia vita, in senso stretto, ma è il mio punto di vista personale, naturalmente. Alcune canzoni in realtà sono solo canzoni d’amore anche se il nucleo sembra guerra, conflitto e filosofia. Tuttavia sono anche personali. “Surely Ash” è una canzone d’amore molto diretta ma anche da colpo al cuore. Ci sono alcune canzoni simili, che portano dentro di sé un dolore molto personale. E ovviamente, come artista, mi diverto a far sembrare il mio piccolo dramma come molto importante. Come D’annunzio, immagino: solo un individuo, ma una grande opera.
D: Il tuo tour si svilupperà in tutta l’Europa. Quali sono i tuoi prossimi progetti?
R: Stiamo arrivando alla fine di questo tour, sfortunatamente. Abbiamo fatto molti spettacoli in Germania, Polonia, Ungheria e ora Italia, Svizzera e Lussemburgo in arrivo. E dopo avremo solo due spettacoli in Ucraina a febbraio e per ora è tutto. Nel corso del 2023 ci sarà il nuovo album. È quasi finito. E questo non sarà una sorpresa: si tratta dell’Ucraina.
D: Grazie, Jerome, per questa intervista.
R: Grazie! E scusa per il rumore.
EN: https://www.relics-controsuoni.com/2022/12/interview-to-jerome-reuter-rome.html
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